lunedì 30 dicembre 2013

QUELLO CHE PENSANO GLI EXTRACOMUNITARI






QUELLO CHE PENSANO GLI EXTRACOMUNITARI

“BELLO PAESE ITALIA: CASA GRATIS, AIUTI DA SINDACI E PRETI STRONZI.           QUESTO PAESE GIUSTO PER CRESCERE MIEI 28 FIGLI CHE IO FARE CON FEMMINA ITALIANA” . IO CHIAMATO MIO CUGINO MOHAMED: ANCHE LUI VENIRE ITALIA CLANDESTINO E STARE CON NOI! IO VENUTO ITALIA PER VENDERE DROGA A STUPIDI ITALIANI, ORA IO RICCO LORO TOSSICI! ITALIA PIU’ BELLO E FESSO PAESE DEL MONDO: SE IO RUBO CASA DI ITALIANO COLPA NON MIA MA DI ITALIANO!

QUANDO IO ARRIVATO ITALIA IO POVERO, ORA APERTO 10 NEGOZI KEBAB E 5 TAPPETI E ITALIANI CHIUDERE PERCHE’ MOLTE STUPIDE FEMMINE ITALIANE VENIRE COMPRARE DA ME! “PRIMA IO ERA SOLO: ADESSO ARRIVARE SEMPRE TANTI FRATELLI AFRICANI. “FRA POCHI ANNI ITALIANI SCEMI ESSERE MINORANZA E NOI COMANDARE, ADESSO NOI AVERE GIA’ 2  IN PARLAMENTO ITALIANO. CENTRO SINITRA BRAVA, ANCHE CENTRO DESTRA BRAVA! DARE A NOI AIUTO MENTRE A ITALIANI VECCHI NIENTE”, IO “CLANDESTINO” RUBARE IN CASE E FEMMINE ITALIANE FARE VIOLENTARE DA ME PER “SOLIDARIETA’ SE NO’ LORO ESSERE RASSISTE! SE POLISIA ITALIANA TOCCARE ME ESSERE RASSISTA, E GIUDICE SINISTRO E PRETI FARE USCIRE ME! ITALIANI FESSI FARE MOSCHEA . NON VERO CHE NOI SOLO RUBARE, ANCHE SPACCIARE”.                         –POLITICI COGLIONI ITALIOTI DETTO CHE NOI VOTARE COSI’ NOI FARE NOSTRO PARTITO ISLAM E PRENDERE GOVERNO, FARE ITALIA ISLAM. “NOI TOCCARE FEMMINE ITALIANE, MA ITALIANI NON POTERE TOCCARE NOI, SE NO ARRESTATI COME RASSISTI.

NOI TUTELATI DA “GOVERNO(?) ITALIANO MA ITALIANI NON TUTELATI NEMMENO DA UN GOVERNO AFRICANO!!                                                                     


CHE BELLO ITALIA!
POPOLO DI PECORONI SVEGLIA!!!!!!!!
                                                                                                

giovedì 26 dicembre 2013

IL PAPA BENEDICE I FORCONI...CON FERRO SENZA FUOCO


È arrivata ,all'Angelus,la benedizione di Francesco ai Forconi. Dialogo "respingendo le tentazioni dello scontro e della violenza",questo l'invito alla delegazione presente in piazza S. Pietro con bandiere e striscione.
Che Sua Santità abbia letto la scritta dall'alto e,conseguentemente si sia pronunciato,mi sembra davvero improbabile. Certo,lui ha tante risorse ma dall'alto come faceva ?
Piú realistico pensare che fosse tutto organizzato. I Forconi avendo avvisato che "i poveri non possono aspettare" hanno permesso al Pontefice di dire la sua sull'argomento.
Oddio,sono decenni che persone ed associazioni di buona volontà sostengono e portano avanti questo assioma.
Alcuni hanno avuto fortuna ed hanno trovato spazio tra le istituzioni (Boldrini,per tutti). Altri non se li è filati proprio nessuno,anzi sono stati pure tacciati di sedizione.
Fatto sta che poveri ed affini aspettano da sempre,chi e cosa non è chiaro neppure a me.
Però Francesco,grande comunicatore ed interprete degli stati d'animo della gente,si è reso conto che pure in Italia tira una brutta aria. Gli ultimi vedono sempre piú vicini i penultimi (proprio così,non è un errore di prospettiva),mentre primi e secondi sono spariti dalla vista della gente comune.
Lo spettro della miseria è reale,Bergoglio lo ha ben conosciuto in Argentina (figurativamente,non che abbia patito la fame).
Un Papa che deve dire ?
Gli ultimi saranno i primi,secondo dottrina. Ma questo nell'aldilà,in terra nessuno ci sta a crepare di fame,specie in Italia. Ecco quindi opportuno riconoscimento ai Forconi. I quali,malgrado lo strumento che richiama Belzebù,sono più pacifici di una guardia svizzera.
Vediamo così saldarsi,senza voler offendere nessuno,l'asse Bergoglio-Forconi.
Protestare e dialogare senza violenza.
Ricordando,lo faccio io,che lui (Bergoglio) "non è di destra" e,conseguentemente,
tantomeno lo possono essere i Forconi.
Eh,già...Mariano Ferro ha da tempo preso le distanze da quanti "di destra" portano avanti le stesse tematiche da sempre.
Peraltro lui,legato in altri periodi al democristiano Lombardo,in effetti cosa può sapere di quella che,impropriamente,definisce "destra" ?
Sostengo tutt'ora che,alla nascita di fenomeni popolari di protesta,sia un bene non offrire al governo in carica la scusa della presenza di "fascisti" conclamati.
Già bastano i presunti "mafiosi" per gridare al lupo.
Ma dubito fortemente di quanti,senza specifica preparazione in materia e strutturalmente formati per il compromesso,possano riuscire a "mandare a casa" i politici che hanno rovinato l'Italia.
Presumo stiano,litigando tra di loro,cercando proprio un "posticino al sole" della repubblica.
Ovviamente democratica ed antifascista.
Ferro....senza fuoco,questo ha voluto certificare Bergoglio.
La rivoluzione sarà per un'altra volta.

Grazie per l'attenzione e buone feste a tutti.
Vincenzo Mannello
                                                                                                                                     

venerdì 20 dicembre 2013

IL GIRO DELLE FINZIONI - di Ida Magli - (da Italianiliberi)





Il giro delle finzioni
di Ida Magli
Italianiliberi | 17.12.2013

  Tutti i politici di uno Stato che pretende di far parte della società democratica dell’Occidente avrebbero dovuto dimettersi immediatamente all’annuncio  dell’incostituzionalità della legge in base alla quale erano stati eletti. Il capo del governo a sua volta, subito dopo le dimissioni, avrebbe dovuto dichiarare che sarebbe rimasto in carica per indire immediate elezioni e per gli affari urgenti. La finzione con la quale invece gli organi istituzionali hanno deciso di ignorare la delibera della Consulta continuando a fare decreti e progetti a lungo termine ha dato il colpo di grazia ad uno Stato che viveva già da anni al di fuori delle regole costituzionali assecondando le iniziative in tal senso del Presidente della Repubblica. Per gli italiani questo ha significato perdere ogni fiducia e ogni stima non soltanto verso i rappresentanti, ma verso gli uomini che avrebbero dovuto incarnarli. Qui non si tratta di ruberie, di favoritismi, di sprechi cui si è ormai rassegnati: l’annuncio dell’incostituzionalità e quindi dell’invalidità di tutto il meccanismo istituzionale su cui si regge la Repubblica è stato una bomba che ha suscitato un senso di vero e proprio sgomento. Tutti si sono chiesti come ciò sia potuto avvenire. Come sia stato possibile malgrado gli innumerevoli controlli di costituzionalità che ogni legge subisce passando attraverso le Commissioni addette a questa verifica sia alla Camera che al Senato fino alla firma del Presidente della Repubblica. Tutti si sono chiesti come mai non se ne siano accorti i numerosi avvocati e magistrati presenti in Parlamento del calibro di Violante, Di Pietro,  Grasso i quali ovviamente la Costituzione la conoscono a memoria; come mai non se ne sia accorto il foltissimo gruppo di esperti che al Quirinale assiste il Capo dello Stato in tutto quello che firma proprio perché è la sua firma che ne garantisce la costituzionalità. Tutte persone retribuite dagli italiani che hanno mancato al loro compito e che non hanno fatto neanche il gesto di dimettersi.

 Non ci si meravigli delle condizioni di asfissia politica, sociale, economica in cui viviamo: qui si tratta di un Palazzo privo di fondamenta, che fa parte di tutto un insieme privo di fondamenta e che si regge sulla finzione. Anche l’Unione europea infatti è un palazzo privo di fondamenta; un castello di carte, un “bluff”, come l’ha definito  con assoluta precisione il Prof. Lucio Caracciolo e la crisi dell’euro ne è soltanto la conseguenza più visibile. È stato con un’ enorme truffa verso gli italiani che sono stati firmati i trattati di adesione all’Ue servendosi dell’articolo 11 della Costituzione. Questi trattati sono invalidi sia perché l’articolo 11 è stato formulato (su suggerimento del banchiere Luigi Einaudi) appositamente per poter scippare i cittadini dell’indipendenza e della sovranità monetaria senza chiedere il loro parere, sia perché la rinuncia alla sovranità e all’indipendenza non è questione di normale politica estera: uno Stato vi si piega soltanto se costretto dal vincitore di una tragica guerra. Tutte le istituzioni dell’Ue sono finte, o meglio sono truffaldine. Non essendo uno Stato, l’Ue non ha il potere per dare la “cittadinanza”: la tanto vantata cittadinanza europea è quindi invalida, un orpello, un vetro di bigiotteria. Né si creda che i politici non sappiano che lo Stato europeo non esiste: per questo la Bce è una banca privata, non dipende dall’Ue. Lo stesso discorso vale per il “parlamento europeo”: il nome è una finzione; non è un parlamento perché non fa le leggi e non fa le leggi perché l’Ue non è uno Stato. Bisogna quindi dichiarare invalidi tutti i trattati europei e rifiutarsi di votare per un falso parlamento, non permettendo, come i politici hanno furbescamente intenzione di fare, che queste elezioni vengano indette insieme alle elezioni nazionali. Si vada al voto subito: questa è l’unica cosa che può forse rimettere in piedi uno Stato che possa ancora definirsi uno Stato.

Ida Magli
Roma, 16 dicembre 2013 
                                                                                                                                   

martedì 17 dicembre 2013

A difesa del proprio status quo -- di Marco Cedolin (ITALIA SOCIALE


 
 
ALZO ZERO 2013

A difesa del proprio status quo
 
di Marco Cedolin
 
In questi giorni di blocchi e proteste, portati avanti da gruppi di cittadini, poco avvezzi ad occupare le strade, ma molto esasperati dalla mancanza della materia prima con cui imbandire il desco, mi è capitato di ascoltare una vera e propria ridda d'improbabili grida d'allarme provenire da un po' tutte le parti. Chi paventa il pericolo di un golpe militare, dimenticando di trovarsi nell'anno del Signore 2013 e non a metà del secolo scorso, nelle mani di banchieri assai più feroci di quanto i militari potrebbero mai immaginare di essere. Chi bolla come squadrista fascista chiunque partecipi ai blocchi, finendo per scontrarsi con il numero dei manifestanti, davvero troppo cospicuo per specchiarsi in movimenti dello zero virgola. Chi è indispettito dal basso livello culturale dei manifestanti, "tutta gente ignorante che fino a ieri dov'era?" Chi vaticina intorno ad improbabili sodalizi fra poliziotti e rivoluzionari, intravvedendo una futura dittatura assai meno tangibile di quella attualmente in essere targata Bruxelles e così via....
 
Ma il meglio del meglio è offerto dai mestieranti della trimurti sindacale, targata CGIL, CISL e UIL (l’UGL tace e acconsente), quelli degli accordi contro i lavoratori firmati senza fiatare, degli scioperi di un'ora che non diano fastidio a nessuno, dell'amore viscerale verso le banche ed il capitale, della genuflessione nei confronti della controparte, elevata a regola di vita. Quelli che proprio a Torino, dove stamani la protesta dilaga costringendo alla chiusura la maggior parte dei centri commerciali, non hanno più il coraggio di presentarsi davanti ai cancelli della FIAT, temendo di venire presi a calci dagli operai di cui avrebbero dovuto tutelare gli interessi.
 
Proprio CGIL, CISL e UIL, associazioni miliardarie parassitarie, interessate unicamente alla tutela del proprio status quo, hanno dichiarato di voler respingere e contrastare le manifestazioni dei cittadini, bollandoli come qualunquisti, evasori fiscali, mafiosi e via discorrendo. Il tutto nell'estremo tentativo d'innescare una guerra fra poveri, o meglio fra cittadini (partite iva, operai, impiegati) resi poveri da Bruxelles e dai suoi servi di cui la trimurti fa orgogliosamente parte.
 
Con un poco di pazienza si possono anche sopportare le grida d’allarme lanciate dai cittadini spaventati che ancora sanno come imbandire il desco, ma ascoltare lezioni di "democrazia" da parte della trimurti sindacale che insulta i cittadini per tutelare il proprio patrimonio, questo no, mi sembra davvero troppo.


domenica 15 dicembre 2013

ALLEANZA NAZIONALE: MERCATINO DELL'USATO (IN)SICURO

4% del mercato elettorale. Tanto è quotato il simbolo di Alleanza Nazionale (comprensivo di quello del vecchio Msi) dagli esperti del settore. Per questo,anche  dopo quanto avvenuto con Forza Italia,ne viene consigliato il ripristino sulle schede. Per "tirare voti",senza badare troppo ai contenuti ed indipendentemente dalle presenze fisiche.
Così ritrovo oggi su il Giornale un paginone che annuncia la prima assemblea della relativa "fondazione".
Beh,con tutti i soldi che si ritrova in cassa,trovo strano si sia ancora alla assise iniziale. Ma tant'è...,mi incuriosisce (poco) capirne il senso. Rileggo pertanto l'intervista ad Ignazio La Russa con cui lo stesso "apre" le porte della scalata al parlamento prossimo venturo sotto il simbolo scongelato di Alleanza Nazionale.
Storace quindi si faccia avanti. Ma pure,in fondo,Gasparri e Matteoli. E,presumo,senza lasciar fuori Alemanno.
Sottintende La Russa : accordiamoci sul simbolo (anche sul patrimonio,aggiungo io malevolmente) con cui presentarci alle prossime elezioni (europee) e ci ritroveremo automaticamente eletti.
Cosa dire e cosa fare,lo decideremo dopo.
Oh,il ragionamento non fa una grinza.
Visto che il logo di un partito garantisce da solo il superamento dello "sbarramento" elettorale perché non servirsene per mantenere i vecchi privilegi acquisiti ?
Non importa che sotto quel simbolo si sia svenduto quello precedente (il Msi) rinnegandone radici e caduti.
Tantomeno è rilevante il fatto di aver assistito Fini nella eutanasia di An. Dettagli insignificanti.
Trovato l'accordo sui soldi,seguirà quello sul simbolo,sono certo lo rivedremo sulle schede.
Visti i precedenti risultati ottenuti dai vari La Russa,Storace,Alemanno e soci consiglio loro una ragionevole proposta :
presentino il simbolo senza candidature.
Otterranno ben più del 4% ed eviteranno a chi lo voterà guai ancora maggiori di quelli già provocati con la loro passata presenza.

N.b. quanti hanno la bontà di pubblicare e leggere quanto sopra pur fregandosene di An e La Russa, sono invitati ad una riflessione ulteriore. La questione potrebbe interessare altri personaggi ed altri loghi. Pensate se la fondazione di D'Alema riesumasse il simbolo del vecchio Pci,magari con Civati capolista.
O se Casini riacquistasse la disponibilità dello scudo crociato. Insomma,per chi decida di voler votare si apre la stagione del revival e,come al solito, Berlusconi ha anticipato tutti.

Grazie per l'attenzione.
Vincenzo Mannello

venerdì 13 dicembre 2013

GRILLINI, CHI SONO? LA CORTE DEI MIRACOLI - Ercolina milanesi -

Grillini, chi sono? La corte dei miracoli

Piano, non illudetevi di come vi ho qualificati. Prima andate a cercare sui testi di storia cosa fosse “La Corte dei miracoli” e solo dopo aver appreso per benino potete trarre giuste considerazioni.
Ovvio che non sapete dare risposta….occorre aver studiato, conoscere bene la storia non solo dell’Italia e cari grillini voi siete la negazione della cultura.
Sapete perché ho voluto scrivere questo appunto?
La sera della destituzione da senatore di Berlusconi voi, cari grillini, avete offerto agli spettatori televisivi un grande spettacolo, da vera Corte dei Miracoli.
Vi chiederete ma come, che abbiamo fatto per essere così importanti?
Come vostra abitudine ci siete apparsi come degli homeless, malvestiti, sporchi, disordinati, vagavate per la strada come ubriachi, un grillino è uscito con una battuta degna di un Nobel: “ Avete visto quelli di Forza Italia con le bandiere nel corteo? Poveracci fanno pena , non hanno la nostra cultura, noi sì che siamo intelligenti ed istruiti e difatti al governo ci siamo noi”.
E ci mancherebbe una disgrazia simile. Va già tanto male in Italia che ci vorreste voi al governo. Lo vediamo che fate alla Camera: stravaccati (esatta parola che esprime la posizione), abbracciati, chi legge con le gambe stese su altra poltrona, donne che si pettinano, insomma la vera summa della cattiva educazione.
Chi possiede un titolo di studio (credo che si possano contare sulle dita della mano, tanto è l’esubero….) ogni tanto ha la parola dal Presidente ma …farebbe meglio a tacere, tali sono le frasi nonsense che dice.
Siete in molti, difatti il vostro partito è uno dei primi, ma da dove siete saltati fuori solo Dio lo sa.
Non siete politici, non siete laureati per insegnare, non siete proprietari di industrie o grandi imprenditori, i vostri nomi sono sconosciuti, venite dalla strada, casalinghe, commesse, operai, disoccupati, voglia di far niente (anche di questi vi è esubero…). La vostra fortuna è aver trovato Grillo, pazzo furioso ed isterico specie quando tiene concioni sulle pubbliche piazze ( ecco che salta fuori La Corte dei Miracoli, ove finti giullari o parlatori occasionali alleggerivano del portafoglio gli ascoltatori) ma, essendo furbo e scaltro, è riuscito a raggruppare una grande massa per fondare il suo partito.
Al principio tutti santi e indifferenti al dio denaro e relativo stipendio poi, poco alla volta, incominciarono le recriminazioni sulle somme elargite a ministri e senatori.
Vi siete lamentati che per vivere a Roma occorrono parecchi euro….ma non lo sapevate prima? Indi aumenti richiesti per il lavoro immane che dovete sostenere!
Grillini, non dite più stupidate, non cercate di farvi passare per politici, per geni incompresi, siete solo degli insetti che appartenete all’ordine degli insetti ortotteri ensiferi. Corpo robusto e tozzo con una grossa testa (sperando che il cervello non sia microscopico), lunghe antenne o tegmine e ali posteriori variamente sviluppate , le zampe, ossia le gambe posteriori robuste e adatte al salto, magari per fare un fugone se qualcuno vi vuole menare….sono insetti onnivori che scavano, nei terreni arabili buche e gallerie nelle quali vivono.
Ora con i soldi che prendete dal Parlamento potete abitare dove volete, non dovete fare più sacrifici, comperare quello che desiderate e potete urlare improperi a tutti i politici a voi antipatici e che non sono del vostro partito. Ma di quale area siete, grillini che, con il vostro capataz che urla sempre (una volta o l’altra ci rimane secco per infarto…) non si riesce a capire un tubo?
Qualificarsi di destra, di centro o di sinistra è uno dei modi che un uomo ha per proclamarsi imbecille!
Cogitate, grillini, cogitate!
La Corte dei Miracoli chiude i battenti!

ERCOLINA MILANESI 


                                                                                                                                                                                      

domenica 8 dicembre 2013

FRECCIAROSSA SENZA COCCOLE...FELTRI SI ARRABBIA

 FRECCIAROSSA SENZA COCCOLE...FELTRI SI ARRABBIA
------------------------------------------------------------
Già,su il Giornale di ieri,ha picchiato duro Vittorio Feltri sul grave disservizio riscontrato a bordo di un Frecciarossa da Milano a Roma. Niente giornale,niente aperitivo e,soprattutto,nessun pranzo ! Incredibile! Da esperto giornalista liberal capitalista ha chiarito ai lettori berlusconiani il grave significato dell'accaduto. Raccontando così di come il vanto di Trenitalia avesse acquisito sul competitore privato Italo (che,per chi non lo sapesse, non è un qualche nostro parente bensì il Tav superveloce di Luca Cordero di Montezemolo) un grande vantaggio. Non di velocità (in fin dei conti il bel Luca si fa battere solo dalla Red Bull),ma di coccole a bordo. Giornale,aperitivo e stuzzichini seguiti da un ottimo pranzo sul Frecciarossa. Niente di niente, con in più un pizzico di maleducazione da parte del personale, su Italo.
Secondo le buone abitudini repubblicane vigenti tra le persone che contano,il nostro (Feltri) si era attaccato al telefono per protestare energicamente con il papà di Italo contro quella intollerabile prova di inferiorità offerta dal privato rispetto al pubblico. Montezemolo,stando sempre al racconto di Feltri,se ne fregò altamente. Niente giornali,aperitivi e succulenti pranzi. In compenso scomparsi anche dal Frecciarossa. Potenza dell'adeguamento al ribasso richiesto dal mercato (nonché dall'Europa).
Non so se Brunetta presenterà una interrogazione sull'argomento. Certamente il fatto è grave. Come faranno in futuro i giornalisti come Feltri a viaggiare senza le coccole e comprensive di lauto pranzo ? Concetto esteso anche a tutto l'ambiente bene e snob cui l'ex direttore si rivolge. Sottintendendo che,sia Trenitalia come pure Montezemolo,rischiano di trasformare la Tav in un calvario senza prosecco,olivette,e rollè vari.
Non sia mai che il più britannico dei giornalisti italiani si riduca a viaggiare come i cittadini del Sud in carri bestiame per recarsi fino a Roma. O come gli stessi pendolari del centro-nord per andare al lavoro. Sarebbe intollerabile e,forse,vedremmo Feltri inneggiare alla rivoluzione.

Grazie per l'attenzione.
Vincenzo Mannello
                                                                                                                                           

venerdì 6 dicembre 2013

LA FACCIA COME IL CULO


LA FACCIA COME IL CULO

Oggi Berlusconi, alla presentazione del libro di Bruno Vespa ( che gli fa servilmente da sponda ad ogni occasione ) ha avuto la sfacciataggine, riferendosi a “mani pulite”, di dire che la magistratura rossa è responsabile della distruzione dei 5 partiti che rappresentavano la politica italiana come se quella fosse stata un sovvertimento, una rivoluzione un ribaltamento della legalità democratica!.
Ha omesso un particolare e cioè che quei partiti RUBAVANO ED ERANO CORROTTI cosi come ha omesso di ricordare che a quella corruzione egli ha partecipato dando miliardi di lire al corrotto Craxi in cambio di leggi a lui favorevoli sulle concessioni televisive..!!
Evidentemente per Berlusconi il fatto che quei partiti e quei politici RUBASSETRO E FOSSERO CORROTTI è irrilevante e ciò dimostra che per lui, come emerso dalle sue condanne tra cui una definitiva, rubare e corrompere è normale comportamento..!!
Stupisce la stupidità di tanti che ancora gli credono in contrasto con i fatti, con la storia e con un minimo di logica e di verità ..!!
Mala tempora….

Alessandro Mezzano
                                                                                                                        

mercoledì 4 dicembre 2013

Napolitano e il governo liberista scoprono la disoccupazione


ECONOMIA 2013

Napolitano e il governo liberista scoprono la disoccupazione
 
di Federico Dal Cortivo

Dopo aver distrutto quel poco di Stato sociale che i precedenti governi di centro sinistra e centro destra aveva già ampiamente logorato, dopo aver sopportato l’insopportabile e spocchioso Monti e la sua cricca bancaria, ora il governo Goldman Sachs–Bilderberg di Enrico Letta si accorge che in Italia manca il lavoro e crescono la disoccupazione e il disagio sociale. Ma il quadro comico e angosciante al tempo stesso non sarebbe completo senza l’intervento di quel Giorgio Napolitano, reo del golpe di Mr.Monti, che senza vergogna si allinea alle grida finte dei plutocrati governativi. Si proprio lui che favorì ampiamente quel governo di banchieri, che aveva nella Fornero la sua punta di lancia contro il lavoro.

Accanto a Letta si è schierato anche il cardinale Bagnasco, presidente della CEI, rappresentante di quella Chiesa che se con il nuovo Papa sembrerebbe aver ritrovato un certo spirito francescano…, con Bagnasco invece ne è il peggior esempio, ancorata al suo ruolo di Stato straniero in Italia, da sempre contro gli interessi nazionali e quelli del nostro popolo. E proprio per bocca di questo cardinale che vive beatamente la sua condizione di privilegiato (lui certamente non conosce la cassa integrazione), escono parole di elogio per Napolitano, il governo Letta e un attacco al cosiddetto “populismo” (leggasi socialismo e interessi nazionali), termine che la manipolazione mediatica ha sapientemente caricato di un aspetto negativo e utilizzato a dovere per demonizzare ogni movimento che volesse promuovere politiche autenticamente nazionali e socialiste.

É dai tempi della Legge Treu, passando poi per quella Biagi, fino ad arrivare alla Fornero, che in Italia è in atto l’assalto al cosiddetto “posto fisso”, visto dai neoliberisti come un intralcio, un problema, allo sviluppo, alla produzione, al capitale, al mercato. Un qualcosa di obsoleto da sradicare e al suo posto sostituirlo con tutta una serie di contratti, da quelli a tempo determinato a quelli interinali, che in pochi anni hanno precarizzato e reso sempre più insicuro il futuro di tanti giovani e meno giovani.

Si è voluto fare tabula rasa in poco tempo delle grandi conquiste sociali che ponevano l’Italia già all’avanguardia nel primo dopoguerra con le leggi fasciste sul lavoro e previdenza, per arrivare poi al 1970 con la Legge 300 meglio nota come “Statuto dei Lavoratori”. Lo volevano i cosiddetti “mercati”, lo vuole l’Europa, che altro non sono che le potenti lobby finanziare legate alla City e a Wall Street, e alle quali ubbidisce l’attuale governo, Napolitano e la gran parte del Parlamento italiano, tutti insieme tradendo il loro mandato si sono posti al servizio d’interessi antinazionali, pagine già viste purtroppo in Italia dove la “dignità nazionale” è una parola sconosciuta ai più.

In nome di un’Europa fasulla e in mano alla BCE di Draghi, altro campione del gotha usuraio mondialista, si stanno giustificando i tagli alle pensioni, alla scuola pubblica, alla sanità, alla ricerca, alla cultura, alla sicurezza dei cittadini, mentre tasse e balzelli di ogni genere intaccano sempre di più la sicurezza delle famiglie.

Ora il neo Ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, si appresterebbe, dopo aver raccolto dati (chissà dove ha vissuto fino ad oggi giacché era presidente dell’Istat, però sappiamo che è stato membro dell’OCSE nel settore statistico, organismo che - al pari del FMI e della Banca Mondiale - promuove lo sviluppo di politiche liberiste) a proporre una serie di misure tese a contrastare la disoccupazione.
In sintesi, le iniziative rivoluzionarie del neo ministro comprenderebbero un’aggiustata ai “contratti a tempo determinato”, portando l’intervallo obbligatorio tra un contratto a termine e l’altro dai sessanta giorni voluti dalla Fornero per quelli fino a sei mesi e novanta giorni per quelli più lunghi, ai rispettivamente venti e trenta giorni, per poi introdurre una sospensione di un anno del contributo aggiuntivo che un’azienda deve pagare sui contratti flessibili, mentre intatti resterebbero gli sgravi fiscali.

Per passare poi alla “staffetta generazionale”, illuminante idea per sostituire i lavoratori anziani con i giovani. In pratica il sistema, se andrà in porto, dovrebbe funzionare basandosi su due modelli:
Il primo utilizzerà i contratti a tempo parziale, dove il lavoratore vicino alla pensione accetterà un lavoro con meno ore e ovviamente uno stipendio più basso fino alla fine della carriera, ma a parità di contributi del tempo pieno, e in cambio saranno assunti due giovani con un contratto a termine oppure uno con il tempo indeterminato. L’altra tipologia prevede al posto del tempo parziale, il pensionamento prima della scadenza, ma con una penalizzazione.

Tutto questo, che sa solo di presa per i fondelli, a fronte di una situazione quasi esplosiva, fatta di suicidi d’imprenditori e lavoratori con un tasso di disoccupazione dell’11,5% , di cui il 38,4% tra i giovani e il fatturato dell’industria che è calato del 7,9% su base annua, mentre secondo i dati elaborati dalla CGIA di Mestre dal 2008 al 31 marzo 2013 si sono perse ben 85.000 unità imprenditoriali formate da artigiani e da piccoli commerciati, di queste 77.670 sono imprese artigiane.
 
E intanto Marchionne, dopo aver strappato al sindacato accordi capestro, si appresta a liquidare la parte italiana di Fiat un pezzo alla volta.

Fiat Industrial, che controlla IVECO, si prepara a planare a Wall Street con la nuova società olandese che nascerà dalla fusione con Cnh-Fi Cbm Holdings Nv; l’obiettivo è anche quello di trasferire la sede fiscale in Gran Bretagna e tutto questo dopo aver succhiato per decenni soldi pubblici elargiti dai vari governi a piene mani agli Agnelli, capitalisti servo assistiti dallo Stato, che hanno sempre scaricato sulla collettività le passività del gruppo torinese, incapace dopo Ghidella di competere con i propri modelli con gli altri marchi stranieri, e fatto propri gli utili. Ora la Fiat incassa, saluta e lascia l’Italia e a nulla serviranno le sceneggiate del Ministro dello Sviluppo Economico Flavio Zanonato, è tutto già scritto.

Dati e fatti che farebbero vergognare ogni governo, ma non quello attuale, forte dell’appoggio dei bankester e con la stragrande maggioranza dei media schierati e asserviti al suo fianco (del resto sono i padroni dei grandi giornali a dettare la linea editoriale e non i pennivendoli che vi lavorano, idem per le tv e radio maggiori).

Il tutto, stiamone certi, si risolverà in un nulla di fatto come già visto in precedenza. Queste misure sono solo palliativi, che servono a stendere una cortina fumogena attorno all’operato del nuovo governo diretta emanazione del potere bancario, che non potrà che continuare nell’operazione di totale distruzione di ogni sicurezza sociale e lavorativa, quest’ultima infranta da quando è stata messa in discussione l’esistenza stessa e la sua ragione d’essere dei contratti a tempo indeterminato, seguiti poi dall’art. 18, dal Contratto Collettivo Nazionale, depotenziato a favore degli accordi di secondo livello e del sistema delle pensioni.

Dal 1997 con Tiziano Treu Ministro del Lavoro (governo Dini e Prodi), si spalancò in Italia la porta al precariato con il lavoro interinale; da allora la deregolamentazione legislativa non ha avuto più freni trovando poi un’ulteriore spinta liberista con la successiva Legge Biagi del 14 febbraio 2003, che introdusse nuove e inutili tipologie di lavoro (intermittente-a progetto-occasionale ecc.), che a nulla sono valse per i giovani in cerca di una nuova e stabile occupazione, ma sono solo servite a creare nuove forme di precariato e rendere il cosiddetto “mercato del lavoro” (termine improprio utilizzato oggi) una giungla senza certezze, se non quella di avere poche prospettive di un lavoro fisso e duraturo nel tempo, con tutte le numerose ricadute sociali.

“La moltiplicazione dei lavori flessibili tende a erodere la maggior parte delle forme di sicurezza che l’Organizzazione internazionale del lavoro ha proposto tempo addietro per definire il cosiddetto lavoro decente o dignitoso. Nel 1999 si svolse a Ginevra l’assemblea annuale dell’Organizzazione e il rapporto del direttore generale s’intitolava appunto ‘Pour un travail décent’. Erano indicate sette forme base di sicurezza: sicurezza dell’occupazione-sicurezza professionale-sicurezza sui luoghi di lavoro-sicurezza del reddito-sicurezza di rappresentanza-sicurezza previdenziale”.
(1)
 
Oggi si va esattamente verso l’opposto di tutto questo con la complicità delle maggiori Organizzazioni sindacali italiane, che da anni hanno oramai accettato e firmato contratti a perdere e leggi che rendono spesso impossibile tutelare i lavoratori all’interno delle imprese.

I risultati alla fine sono stati nulli sul piano dell’occupazione, che non è certo cresciuta, o se è aumentata lo è stato solo conteggiando precari e non precari alterando così le cifre, mentre ora in fase recessiva si prosegue sugli stessi binari incuranti dei danni sociali già prodotti.
 
Sono i medesimi creatori della recessione, del mito del “debito pubblico” a volere questo, per loro l’unico obiettivo è arrivare ad avere masse docili di precari sottopagati, facilmente ricattabili anche dall’uso sconsiderato della manovalanza straniera, da utilizzare in cicli continui di lavoro, con pochi diritti e tanti doveri nei siti industriali, nei centri commerciali, nei servizi in mano alle grandi multinazionali straniere cui questi ultimi governi hanno in modo connivente spalancato le porte privatizzando e svendendo i settori strategici e non, e affossando la piccola e media impresa.

Europeanphoenix.it

(1) Il Lavoro non è una merce, contro la flessibilità. Ed Laterza


                                                                                                                          

martedì 3 dicembre 2013

GRILLINI, CHI SONO? LA CORTE DEI MIRACOLI (Ercolina Milanesi)



Grillini, chi sono? La corte dei miracoli

Piano, non illudetevi di come vi ho qualificati. Prima andate a cercare sui testi di storia cosa fosse “La Corte dei miracoli” e solo dopo aver appreso per benino potete trarre giuste considerazioni.
Ovvio che non sapete dare risposta….occorre aver studiato, conoscere bene la storia non solo dell’Italia e cari grillini voi siete la negazione della cultura.
Sapete perché ho voluto scrivere questo appunto?
La sera della destituzione da senatore di Berlusconi voi, cari grillini, avete offerto agli spettatori televisivi un grande spettacolo, da vera Corte dei Miracoli.
Vi chiederete ma come, che abbiamo fatto per essere così importanti?
Come vostra abitudine ci siete apparsi come degli homeless, malvestiti, sporchi, disordinati, vagavate per la strada come ubriachi, un grillino è uscito con una battuta degna di un Nobel: “ Avete visto quelli di Forza Italia con le bandiere nel corteo? Poveracci fanno pena , non hanno la nostra cultura, noi sì che siamo intelligenti ed istruiti e difatti al governo ci siamo noi”.
E ci mancherebbe una disgrazia simile. Va già tanto male in Italia che ci vorreste voi al governo. Lo vediamo che fate alla Camera: stravaccati (esatta parola che esprime la posizione), abbracciati, chi legge con le gambe stese su altra poltrona, donne che si pettinano, insomma la vera summa della cattiva educazione.
Chi possiede un titolo di studio (credo che si possano contare sulle dita della mano, tanto è l’esubero….) ogni tanto ha la parola dal Presidente ma …farebbe meglio a tacere, tali sono le frasi nonsense che dice.
Siete in molti, difatti il vostro partito è uno dei primi, ma da dove siete saltati fuori solo Dio lo sa.
Non siete politici, non siete laureati per insegnare, non siete proprietari di industrie o grandi imprenditori, i vostri nomi sono sconosciuti, venite dalla strada, casalinghe, commesse, operai, disoccupati, voglia di far niente (anche di questi vi è esubero…). La vostra fortuna è aver trovato Grillo, pazzo furioso ed isterico specie quando tiene concioni sulle pubbliche piazze ( ecco che salta fuori La Corte dei Miracoli, ove finti giullari o parlatori occasionali alleggerivano del portafoglio gli ascoltatori) ma, essendo furbo e scaltro, è riuscito a raggruppare una grande massa per fondare il suo partito.
Al principio tutti santi e indifferenti al dio denaro e relativo stipendio poi, poco alla volta, incominciarono le recriminazioni sulle somme elargite a ministri e senatori.
Vi siete lamentati che per vivere a Roma occorrono parecchi euro….ma non lo sapevate prima? Indi aumenti richiesti per il lavoro immane che dovete sostenere!
Grillini, non dite più stupidate, non cercate di farvi passare per politici, per geni incompresi, siete solo degli insetti che appartenete all’ordine degli insetti ortotteri ensiferi. Corpo robusto e tozzo con una grossa testa (sperando che il cervello non sia microscopico), lunghe antenne o tegmine e ali posteriori variamente sviluppate , le zampe, ossia le gambe posteriori robuste e adatte al salto, magari per fare un fugone se qualcuno vi vuole menare….sono insetti onnivori che scavano, nei terreni arabili buche e gallerie nelle quali vivono.
Ora con i soldi che prendete dal Parlamento potete abitare dove volete, non dovete fare più sacrifici, comperare quello che desiderate e potete urlare improperi a tutti i politici a voi antipatici e che non sono del vostro partito. Ma di quale area siete, grillini che, con il vostro capataz che urla sempre (una volta o l’altra ci rimane secco per infarto…) non si riesce a capire un tubo?
Qualificarsi di destra, di centro o di sinistra è uno dei modi che un uomo ha per proclamarsi imbecille!
Cogitate, grillini, cogitate!
La Corte dei Miracoli chiude i battenti!

ERCOLINA MILANESI

                                                                                                                                                                     

lunedì 2 dicembre 2013

LA REVISIONE DELLA SPESA GERIATRICA

   la revisione della spesa geriatrica

"La malnutrizione (degli anziani) deve essere evitata ad ogni costo perché aumenta del 25% il rischio di ricoveri ed accresce la mortalità".
Bene,a me ed ai tanti che non sono medici questo allarme imperativo, lanciato da geriatri e gerontologi durante un congresso a Torino e riguardante la salute degli anziani dai 65 anni in poi, non può che fare piacere. Dato che tra poco entrerò in graduatoria leggo quindi, con interesse,l'articolo su La Sicilia.
Segue una distinzione tra fasce d'età con proporzione di consumo calorico necessario per non essere malnutriti : 65-74,75-80 ed ultraottantenni.
Tutto chiaro,le preziose calorie  necessarie calano con il trascorrere inesorabile del tempo.
Ed allora,dove trovo la sorpresa ?
Per i medici,stando all'articolo,si può mangiare bene spendendo da un minimo di euro 1,62 (avete letto bene,uneuroesessantaduecentesimi) della fascia piú vicina al trapasso al massimo di 5,20 necessaria ai piú giovani sessantacinquenni.
E giù un "preventivo" di colazione a base di latte e fette biscottate o yogurt e pane bianco al prezzo stracciato di 30-50 centesimi al massimo. Passando poi al pranzo ,ci si può nutrire a sufficienza con pasta,pomodoro ed un uovo. Al costo di 60 centesimi sessanta. Volendo scialacquare ,con 2,60 euro si può trovare un minestrone ed una fettina di manzo.
Per la cena a base di verdura,uova e banana (!) possono essere sufficienti 70 centesimi. A voler eccedere,con tonno ed una mela,si arriva a 2,40.
In sintesi gli studiosi concludono che,dai 65 anni in poi, ci si può nutrire sufficientemente con 150 euro mensili per i più giovani a finire con i 50 dei matusalemme nostrali.
Se non fosse che sono (da siciliano) "malupensanti" avrei tratto la considerazione che è meraviglioso trovare professionisti di tale capacità.
Unire la sapienza medica alla conoscenza (??) dei prezzi di hard discount e mercatini rionali (visti le cifre citate) non è da tutti.
Ma,passato il senso di colpa per il mio personale "spreco" di calorie ed euro in eccesso,ho trovato strana la coincidenza tra questo studio e la situazione sempre piú pesante in cui versano anziani e vecchi (per la verità non solo loro,ma ai giovani penseranno dopo) per il taglio di pensioni e servizi vari.
Volutamente o meno lo studio dei geriatri-economisti suona come aiuto alle politiche europee del rigore sempre piú stretto.
Invece di richiedere un innalzamento del tenore di vita (almeno alimentare) e della capacità di spesa di una fascia di popolazione sempre piú numerosa,propone una inverosimile tabella. Non di calorie,quelle non oso contestarle,ma dei prezzi degli alimenti.
Davvero questi professionisti ritengono che ci si possa nutrire,in Italia non in alcuni paesi africani,con 50-150 euro al mese ?
Hanno esempi in famiglia ?
Oppure il loro scopo è di far risparmiare il governo sui ricoveri ospedalieri e sulle pensioni ?
Si rendono conto che sono tesi e discorsi da economia di guerra ?
Credo proprio di si,sono gli scienziati della revisione della spesa.

Grazie per l'attenzione.
Vincenzo Mannello
                                                                                                                                           

venerdì 29 novembre 2013

LE RADICI PROFONDE NON MUOIONO MAI !



LE RADICI PROFONDE NON MUOIONO
MAI

--------------------------------------------------------------------
“Senza dubbio, i comunisti, nei paesi in cui hanno instaurato la loro sanguinosa dittatura, con la complicità delle democrazie occidentali, non si sono limitati ad assassinare l’elite dirigente delle nazioni sottomesse, ma hanno anche intrapreso un’opera di falsificazione della storia di queste nazioni, per spegnere nella memoria storica delle nuove generazioni qualsiasi traccia del passato. Nei paesi cosidetti liberi, le medesime forze spiegano un’offensiva pubblicistica parallela per offuscare l’opini nione pubblica. Padroni dei canali di informazione, la cospirazione comunista (ora mimetizzata al potere) ha inondato con pubblicazioni menzognere e tendenziose il mercato letterario e dei media (tv-radio-giornali), allo scopo di seppellire i movimenti nazionalisti attribuendo loro un passato di infamie e di crimini e negando loro qualsiasi merito e diritto alla riconoscenza delle giovani generazioni. Tuttavia, i becchini della civiltà europea si sono scontrati negli ultimi anni, proprio quando sembravano prossimi a celebrare il trionfo della loro causa, contro un fenomeno inaspettato e imprevisto nei loro calcoli: la strenua resistenza di una parte rilevante delle giovani generazioni. Un nuovo soffio infatti, percorre oggi la coscienza d’Europa: le nuove generazioni rifiutano di avere gli occhi bendati dagli agitatori marxisti, di essere condotte come pecore dai falsi apostoli della civiltà del “benessere” e degradate a massa di manovra per favorire gli interessi dell’imperialismo di oltre oceano. Gli slogan anarco- mondialisti e quelli della “civiltà” consumistica fanno sempre meno presa sulla gioventu’, che scopre di essere stata ingannata e spinta verso il precipizio . “Per quanto riguarda il nostro comportamento in politica estera, noi siamo tra coloro che credono che il sole sorge non a Washington ma a ROMA!!! -Noi crediamo che i nostri padri, ci guidano nei momenti difficili e dolorosi. Noi siamo la mobilitazione delle forze patriottiche e nazionali contro il potere del male.
Un fraterno saluto a tutti gli italiani.
VINCEREMO !


giovedì 28 novembre 2013

MAFIA E POTERE



Mafia e potere

1ª parte

La mafia, per essere tale, deve controllare il territorio; ciò vuole dire necessariamente «fare politica». Per poter realizzare i suoi «affari» -che sono alla base della esistenza stessa di questo tipo di criminalità- deve instaurare rapporti con quella che viene definita «società civile» e con il mondo politico ed economico. I rapporti con la «società civile» del territorio controllato sono basati sulla forza attraverso la quale si ottiene l'omertà o anche il consenso. I rapporti politici ed economici sono fatti di legami palesi ed occulti, di scambi di favori, di controllo del voti, di minacce, di infiltrazioni, di condizionamenti. Quando i rapporti politici ed economici si rompono e gli apparati dello Stato combattono veramente la mafia, essa va in crisi perché incomincia e perdere il controllo dei territorio e quindi il consenso e l'omertà. La storia della mafia e del suo sviluppo è quindi, soprattutto, storia dei suoi legami con il mondo politico ed economico. Già nel primi anni dell'Unità d'Italia la Mafia ha i suoi legami con il potere politico ed economico, ma essi sono di sudditanza: il nobile o il borghese, con i voti dei mafiosi va a fare il deputato a Roma, mentre i mafiosi, con l'appoggio del nobile e del borghese, vanno a fare i consiglieri nei paesi della Sicilia. In quel periodo l'opera della mafia è essenzialmente legata all'agricoltura: impone guardiani nel campi, tangenti sulle greggi e, soprattutto, cerca di monopolizzare il controllo delle acque, indispensabili all'agricoltura stessa. Alle elezioni dei 1876 l'opposizione ottiene in Sicilia ben 43 deputati su 48 e c'è l'avvento al potere della sinistra, con il governo De Pretis, proprio grazie al voti determinanti dei deputati siciliani. Si comincia a dire che la vittoria della sinistra è stata agevolata proprio dal mafiosi e che con la vittoria della sinistra ha vinto l'opposizione mafiosa. «Nel 1895 (età di Giolitti) -scrive il giudice Rosario Minna in "Breve storia della mafia"- il generale Mirzi, su ordine del governo, parte da Palermo e va ad Alcamo per far scarcerare un mafioso la cui famiglia è essenziale per l'elezione a deputato dei candidato governativo». In Sicilia le elezioni tra la fine dell'800 e l'inizio del '900 -anche se non esiste il suffragio universale- non hanno nulla di diverso da quelle dei giorni nostri: ciechi che votano, fucilate e attentati. Nel 1905, a Grammichele, la mafia spara sul contadini: 18 morti e 200 feriti. Tra la fine del '800 e l'inizio dei '900, vengono assassinati anche alcuni sindacalisti. Nel 1909 la mafia uccide a Palermo il poliziotto italo-americano Joe Petrosino impegnato in indagini proprio sulla mafia. Dell'omicidio viene accusato il boss don Vito Cascio-Ferro. Al processo, però, don Vito si salva perché un deputato palermitano testimonia che all'ora dell'omicidio il mafioso era a pranzo in casa sua. Nel maggio del 1924, Mussolini -capo di un governo di coalizione- va in Sicilia e, a Piana dei Greci, il sindaco Francesco Cuccia sull'auto gli dice che non c'era bisogno di tutti quei carabinieri e poliziotti mobilitati in quanto, essendo sotto la sua protezione, non avrebbe potuto avere «dispiacenze». Mussolini interruppe la visita e tornò a Roma. Nella capitale convocò i suoi collaboratori e chiese un uomo da mandare in Sicilia a combattere la mafia. Venne fuori il nome di Cesare Mori che, da Prefetto di Bologna, aveva ordinato al carabinieri di sparare sugli squadristi. Bocchini, capo della polizia, disse che Mori non era fascista e non capiva niente di politica. Mussolini gli ribattè che non voleva un politicante e chiuse il discorso dicendo: «Spero che sia duro con i mafiosi come lo è stato con i miei squadristi». Mori venne nominato Prefetto di Trapani e dopo pochi giorni era già in Sicilia. Nell'ottobre del 1925, venne quindi spostato a Palermo con l'incarico preciso di combattere la mafia. Sull'opera di Mori in Sicilia si è molto discusso nel dopoguerra e si continua a discutere ogni qualvolta il problema mafioso si ripresenta nella sua drammaticità: alcuni -come la televisione di Stato- hanno messo in risalto una eccessiva durezza del «Prefetto di ferro»; altri hanno cercato di accreditare la tesi secondo cui Mori avrebbe colpito solo personaggi secondari (tesi sostenuta anche su "la Repubblica" del 26 luglio). Si tratta quasi sempre di affermazioni dettate da interessi di parte, al fine di impedire una seria discussione sul perché del rinascere della mafia e del suo continuo espandersi nel dopoguerra. Gli studiosi più seri -anche se antifascisti- sono, però, di tutt'altro parere. Il giudice Minna, nella citata "Breve storia della mafia", scrive: «Mori, abile anche nel chiedere ai siciliani di muoversi per primi per liberarsi dai mafiosi, assesta alla mafia una botta tremenda. Migliaia sono i mafiosi che se non vengono incarcerati, almeno finiscono per un buon periodo in una caserma dei carabinieri o in un commissariato di pubblica sicurezza, e i mafiosi vanno a piedi da casa loro alle caserme, ammanettati per le strade dei loro paesi, così essi perdona la faccia [...] Mori colpisce duramente i sindaci e i consiglieri comunali mafiosi che numerosi vanno in galera o al confino (a cominciare da Cuccia di Piana dei Greci) sotto l'accusa di associazione per delinquere di tipo mafioso. [ ... ] Anche preti mafiosi è avvocati capimafia seguono in galera i loro complici mafiosi. [...] Dal 1925 al 1931 numerosi sono i processi che si celebrano contro la mafia, con oltre 100 imputati per volta, e si concludono con pesantissime condanne». In galera fino alla morte finisce anche don Vito Cascio-Ferro. «E la prima volta -prosegue Minna- che lo Stato italiano, con Mussolini, usa la violenza specificamente e direttamente contro la mafia. [...] Tanti sono allora i mafiosi che, secondo la leggenda che comincia a sorgere su Mori, si danno spontaneamente nelle mani del prefetto, dopo anni e anni di impunità e di comoda latitanza». Sergio Turone, nel libro "Corrotti e corruttori" scrive: «Sul finire degli anni venti il regime fascista -il cui autoritarismo ferreo ovviamente, non poteva tollerare l'esistenza di un contropotere quale quello della mafia aveva profuso molte energie nella lotta contro questo tipo di criminalità organizzata, e la quale aveva inferto molti duri colpi». Lo storico e giornalista Arrigo Petacco è ancora più chiaro. Ha infatti scritto: «La mafia [...] ha sempre vinto. Tranne una volta. [...] Accadde in epoca fascista e l'operazione vittoriosa fu personalmente sponsorizzata dallo stesso Mussolini». Mori «con alle spalle, oltre che un'eccezionale carriera di polizia, tre clamorose operazioni antimafia naufragate al momento giusto per i soliti intrighi tra mafia e politica, [...] ai suoi uomini assegnò poche semplici direttive.
1) Ottenere subito un successo clamoroso (e lo ottenne deportando nelle isole migliaia di sospetti, impiegando anche l'esercito e ponendo l'assedio a interi paesi dominati dai briganti.
2) Seminare il terrore: se la mafia fa paura, lo Stato deve farne di più.
3) Distinguere fra «pesci grossi» e «pesci piccoli»; massima durezza con i primi, tolleranza con i secondi.
4) Riaprire tutti i processi di mafia precedentemente archiviati.
La valanga, di uomini e di mezzi che Mori rovesciò sulla Sicilia diede immediatamente i suoi frutti [...]». «Per il quarto punto in programma fu grande alleato di Mori il Procuratore generale Luigi Giampietro  Rinunciando alla legittima suspicione ("devono essere i siciliani a giudicare i loro persecutori") Mori e Giampietro organizzarono nell'isola colossali processi cui veniva data la massima pubblicità. Le condanne furono naturalmente moltissime e sempre pesanti. Le assoluzioni assai poche. Per gli assolti c'era comunque il confino di polizia. I due "Torquemada", come li chiamavano i siciliani, non si fermarono davanti a nulla. Per esempio: scoperto che molti mafiosi avevano trovato rifugio nelle file fasciste, Mori sciolse addirittura la Federazione dei fasci di Palermo e rinviò a giudizio il segretario [...] fu certo un atto molto coraggioso. Assai più coraggioso di quello -mai accaduto- di sciogliere, tanto per fare un esempio, la DC palermitana di Ciancimino».  Quest'ultima affermazione taglia corto anche sulle sciocchezze dette nella trasmissione televisiva "Lezione di mafia". Provino i partiti antifascisti, provi lo Stato democratico a sciogliere le sezioni di partito in cui sono non solo infiltrati ma palesemente presenti e ben accolti i mafiosi!
Il fascismo non operò soltanto sul piano della repressione. Se ai primi del '900 la nobiltà siciliana possedeva i tre quarti delle terre, alla fine della IIª Guerra Mondiale tale possesso era ridotto al 27%; se la mafia aveva cercato di monopolizzare il controllo delle acque, lo Stato fascista operò per garantire l'acqua ai siciliani. Caduto il fascismo per la sconfitta militare, la mafia torna prepotentemente alla ribalta, torna ad acquisire potere; quel potere che è la ricompensa per la collaborazione fornita agli americani prima, durante e dopo l'invasione dell'Italia. Scrive Sergio Turone: «[Gli americani] per agevolare il successo dello sbarco in Sicilia, sollecitarono tramite la mafia USA la collaborazione dei mafiosi locali. [...] Il più noto degli intermediari Lucky Luciano, viene così liberato dal penitenziario, graziato e rispedito in Italia. La mafia aveva già conosciuto momenti di splendore, ed altri ne avrebbe avuti negli anni successivi, tuttavia sempre in una posizione di marginalità rispetto al potere ufficiale. Nel 1943, dopo lo sbarco americano, ebbe per la prima volta nella sua storia l'onore di essere portata alla ribalta come struttura politico-amministrativa riconosciuta, garantita dalle truppe d'occupazione. I vecchi padrini poterono dunque aggiungere alla forza della tradizione il fresco prestigio che procurava loro la protezione dei vincitori». Anche il giudice Minna sottolinea il legame fra la caduta dei fascismo e la riconquista del potere da parte dei mafiosi. Infatti scrive: «Scomparso il fascismo, i mafiosi riapparirono prepotentemente, come è nel loro stile, in pubblico. [...] Il generale dei Carabinieri Castellano, nel gennaio del 1945, presenta agli americani la possibilità di mettere insieme separatisti, mafia e partiti per governare la Sicilia contro il banditismo e la violenza generale». Interessante in proposito una lettera del console americano a Palermo, Alfred T. Nester, del 27 novembre 1944. In essa si legge: «[...] Durante gli incontri segreti tra il generale Castellano e i capi della mafia, il cav. Calogero Vizzini aveva con sé, come consigliere, il dr. Calogero Volpe, medico [...] Vizzini è il padrone della mafia in Sicilia». Dal canto suo, Arrigo Petacco scrive: «[La mafia] si risvegliò infatti soltanto nel 1943 in coincidenza con l'arrivo degli americani. Molti mafiosi poterono così rientrare dal confino vantando addirittura improbabili meriti antifascisti. Don Calogero Vizzini, capo supremo della nuova mafia, fu visto percorrere l'isola a bordo di una carro armato americano: indicava agli alleati gli uomini giusti da mettere alla guida dei comuni e delle province. Anche Genco Russo, altro boss mafioso di grande avvenire, rientrò dal comodo confino di Chianciano dove Mori lo aveva fatto "deportare". Anche lui si disse vittima del fascismo ed ottenne in premio la croce di cavaliere della Repubblica. La "Onorata Società" era dunque tornata in sella. Per la mafia cominciava una nuova era». E che la mafia sia ritornata con la "democrazia" lo ammette anche il comunista Malagugini il quale, nella dichiarazione di voto che accompagna la relazione di minoranza del PCI sulla mafia -relazione che reca come prima firma quella di Pio La Torre- dice: «La Commissione Antimafia doveva offrire una risposta alla seguente domanda: come mai la riconquista della libertà e della democrazia nel nostro Paese ha consentito, e secondo taluni giudizi agevolato, la rinascita dell'attività palese della mafia? Come, perché, ad opera di quali forze politiche e sociali è stato possibile un fatto di questo genere?». Ma non basta! Giuseppe Niccolai ricordava spesso che l'art. 16 del Trattato di pace firmato dall'Italia alla fine della IIª Guerra Mondiale stabilisce l'impegno dello Stato italiano a non perseguire penalmente coloro che avevano collaborato con gli «alleati». Quando la Commissione Antimafia -di cui Niccolai era attivissimo componente- chiese di prendere visione dell'elenco dei nomi di «collaboratori» allegato al Trattato, quell'elenco non si riuscì più a trovarlo. Ma noi sappiamo che a collaborare con gli «alleati» erano stati sicuramente moltissimi mafiosi: Lucky Luciano, appositamente liberato dal carcere; Calogero Vizzini, nominato sindaco di Villalba; Giuseppe Genco Russo, nominato capo dell'Ufficio Assistenza Civile del mandamento di Mussomeli; Vito Genovese -che diventerà poi il «capo dei capi»- nominato interprete di fiducia del colonnello Charles Poletti; Max Mugnani -trafficante di droga- nominato depositario dei magazzini farmaceutici americani in Sicilia. I mafiosi, tornati ad operare in modo palese, instaurarono subito rapporti con il mondo politico. Negli allegati alla relazione della Commissione Antimafia si legge: «[...] Già verso la fine del 1944 Calogero Vizzini orientò le sue scelte politiche verso la DC. Questo partito, nelle sue sfere provinciali e regionali, ben comprese il grande apporto che alle fortune politiche dei dirigenti e del partito stesso poteva arrecare l'orientamento di Calogero Vizzini e perciò della mafia in generale, e non esitò ad accogliere i mafiosi nelle sue file. [...] A Villalba, praticamente, l'intera mafia entrò nella DC; a Vallelunga Lillo Malta passa alla DC con tutto il suo seguito: i Madonia, i Sinatra ecc.; anche il gruppo Cammarata passò alla DC. A Mussomeli Genco Russo e tutto il suo seguito si iscrissero alla DC assumendo la direzione della sezione». La compenetrazione, l'unicità di interessi ed intenti fra mafia e poteri dello Stato che si realizzano con l'arrivo degli americani, appaiono evidenti fin dai primi anni della Repubblica ed esplodono con il «caso Giuliano». Salvatore Giuliano non era un mafioso, era diventato bandito perché aveva ucciso un carabiniere che lo aveva fermato con un sacco di farina sulle spalle. Il primo maggio del 1947 la banda di Giuliano spara, a Portella delle Ginestre, contro i contadini che manifestano. È la prima "Strage di Stato». Beppe Niccolai ricordava che gli ispettori-capi della polizia, Ettore Messana e Ciro Verdiani, andavano a fare visita a Giuliano latitante; che Ciro Verdiani consegnava a Giuliano i nomi dei carabinieri infiltrati nella sua banda, e che lo stesso Verdiani portava al bandito il panettone per Natale, brindava insieme a lui e lo accompagnava ai grandi magazzini di Palermo a comprarsi il vestito. Il 5 luglio del 1950, un comunicato del Ministero dell'Interno annunciava che Salvatore Giuliano era morto in un conflitto a fuoco con i carabinieri. Nella relazione del colonnello Luca si diceva che il mitra dei bandito si era inceppato dopo il dodicesimo colpo -caricatore da 40- «forse per la eccessiva compressione della molla rimasta per troppo tempo inoperosa», e si elencavano i carabinieri che avevano partecipato al conflitto e il numero dei colpi di mitra sparati da ciascuno di essi.

Non era vero niente!
Due giorni dopo il quotidiano "l'Unità" -in un articolo di Maurizio Ferrara- avanzava l'ipotesi che i carabinieri per liquidare Giuliano avevano fatto ricorso alla mediazione e all'aiuto della mafia. Sergio Turone ricorda che la ricostruzione completa dell'intera vicenda apparve sul "l'Europeo". Fu proprio "l'Europeo" a rivelare che Giuliano non era stato ammazzato dal carabinieri, ma era stato assassinato, su commissione, mentre dormiva, da suo cugino Gaspare Pisciotta. Beppe Niccolai raccontava, poi, che solo dopo morto Giuliano era stato colpito da una raffica di mitra per dare credito alla relazione dei carabinieri. Gaspare Pisciotta fu arrestato il 9 dicembre del 1950 e nel processo che si tenne a Viterbo, per la strage di Portella delle Ginestre, ammise di avere ucciso Giuliano nel sonno; dichiarò che l'incarico gli era stato affidato personalmente dal Ministro dell'Interno, il democristiano siciliano Mario Scelba (quello della legge contro la ricostruzione dei partito fascista!), e che la strage di Portella delle Ginestre era stata ordinata dal democristiano Bernardo Mattarella e dai monarchici Alliata di Montereale e Cusumano Geloso. La dichiarazione su Mario Scelba fu giudicata estranea al processo. Mattarella, Alliata di Montereale e Cusumano Geloso furono prosciolti in istruttoria. Pisciotta -che nel corso del processo aveva dichiarato che banditi, polizia e mafia erano un corpo solo, come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo- fu condannato per la strage di Portella delle Ginestre, ma il 9 febbraio del 1954 veniva assassinato in carcere con un caffè avvelenato. Scrive in proposito Sergio Turone -sempre nel libro "Corrotti e corruttori": «[...] Mario Scelba non era più Ministro dell'Interno dal 16 luglio 1953. In quel delicato ministero gli era succeduto uno dei più abili e dinamici delfini di De Gasperi: Amintore Fanfani. Fanfani restò all'Interno fino al 18 gennaio 1954, giorno in cui per la prima volta fu designato alla Presidenza dei Consiglio e formò un monocolore democristiano. Nella nuova compagine governativa il Ministero dell'Interno fu affidato a Giulio Andreotti, allora legatissimo a Scelba. Quel governo durò in carica solo 23 giorni e cadde per la mancata fiducia alle Camere, il 10 febbraio». A proposito delle responsabilità politiche del delitto («le quali potrebbero coincidere o non con quelle penali»), Turone prosegue: «Qualora si ritenga che per ottenere e progettare un delitto fra le mura di un carcere occorra una preparazione più lunga di tre settimane, il ministro responsabile deve essere indicato nel predecessore di Andreotti: Fanfani. Se invece si ritenga, in teoria, che a un ministro furbo e spregiudicato venti giorni siano sufficienti per fare organizzare la liquidazione fisica di un testimone pericoloso carcerato, allora l'oggettiva responsabilità politica dei fatto ricade su Andreotti. [...] Il 10 febbraio 1954 (coincidenza curiosa: proprio il giorno successivo alla morte di Pisciotta) divenne Presidente del Consiglio Mario Scelba, che assunse, guarda caso, anche il Ministero dell'Interno e conservò la carica per un anno e mezzo».

2ª parte
Nonostante gli avvenimenti connessi all'arrivo degli angloamericani, nonostante il «caso Giuliano» negli anni Cinquanta e Sessanta non sono pochi i politici e i magistrati che negano perfino l'esistenza della mafia che, invece, agisce e celebra i suoi riti alla luce dei sole. Da "Il venerdì di Repubblica": «Anche in quell'anno, il '61, la festa della Madonna della Catena cadeva nella seconda domenica di settembre [...] La processione in onore della patrona all'improvviso si fermò, la folla voltò le spalle alla matrice e mille occhi guardarono il vecchio sul balcone. Dietro c'era il figlio, il primogenito. Era poco più di un ragazzo. Il vecchio lo abbracciò davanti a tutti e tutti capirono. A Riesi, case di tufo sparse intorno alle miniere di zolfo della Sicilia profonda, quel giorno era nato un nuovo capomafia. Da tre generazioni i Di Cristina si tramandavano il potere, da un secolo si passavano lo scettro dei comando sulla piazza del paese [...]». Sergio Turone, da un volume-inchiesta sulla mafia, desume questa descrizione di Palermo agli inizi degli anni Sessanta: «Sindaco è Salvo Lima, un giovane fanfaniano protetto da Giovanni Gioia; e assessore ai lavori pubblici è Vito Ciancimino, pupillo di Bernardo Mattarella. È con Lima e Ciancimino che si accolgono numerose «osservazioni» al piano regolatore (e se ne avvantaggiano notissimi mafiosi) e che l'80% delle licenze edilizie vengono rilasciate a prestanome. È il periodo di massima ascesa di Angelo e Salvatore La Barbera che trovano tutte le porte aperte al Comune; ed è quello dell'affermazione del costruttore miliardario "don" Ciccio Vassallo». A proposito di Giovanni Gioia, Nando Dalla Chiesa ha scritto: «Lo scrittore Michele Pantaleone, nel suo libro "Antimafia, occasione mancata", aveva dato a Gioia del mafioso [...] Gioia querelò sia Pantaleone sia l'editore Einaudi. Le prove vennero fuori [...] Pantaleone ed Einaudi furono assolti. Per la prima volta un tribunale della Repubblica aveva riconosciuto che un ministro della Repubblica era un mafioso». Per quanto riguarda la mappa del potere in Sicilia negli anni immediatamente successivi, Nando Dalla Chiesa così prosegue: c'è «poi Attilio Ruffini, ex-doroteo, già ministro della Difesa e degli Esteri In prima fila [...] al funerali di don Calogero Volpe e poi ospite di gala a una cena elettorale organizzata nel '79 dalla banda delinquenziale (traffico di droga) degli Spatola e degli Inzerillo, allora membro come Lima della direzione nazionale democristiana. [...] Il maggior potere economico è invece detenuto dal costruttore Cassina [...] ma soprattutto dai cugini Salvo Lima e Antonio Ardizzone, proprietario del "Giornale di Sicilia", la cui famiglia è a sua volta in rapporti di amicizia con Michele Greco, il boss mafioso condannato all'ergastolo per l'assassinio dei giudice Chinnici. Altri personaggi dotati di potere reale sono Aristide Gunnella e l'avvocato Vito Guarrasi. A proteggere Lima e Ciancimino non ci sono solo i democristiani. Ciancimino viene eletto Sindaco di Palermo nel novembre del 1970; viene subito presentata una mozione per le immediate dimissioni del Sindaco «mafioso»; ma Ugo La Malfa -segretario nazionale del Partito Repubblicano, con fama di moralizzatore- invia un telegramma in cui si dice in sostanza: «Se fate dimettere Ciancimino io provoco la crisi su tutto il territorio nazionale ...». Gli anni Settanta, quelli in cui i personaggi anzidetti accrescono il loro potere, sono anni cruciali per lo sviluppo della mafia. Luciano Leggio (detto Liggio), dopo avere eliminato don Michele Navarra, dà inizio all'era dei Corleonesi (a proposito di Liggio, nel 1974, il giornalista Zuffino manifestò il sospetto che questi sapesse qualcosa sulla bomba di piazza Fontana del 12 dicembre 1969). Anche se proprio durante gli anni Settanta Liggio, Alberti, Coppola, Badalamenti ecc. finiscono o al confino, o in galera, o uccisi, la mafia non perde potere ma, anzi, si espande, cresce, si modernizza -anche su consiglio di "Cosa Nostra" americana- e i delitti eccellenti che prima erano stati rarissimi (quattro in un secolo) diventano pane quotidiano.
E proprio negli anni '70 scoppia uno dei casi più clamorosi che mette in evidenza i legami tra mafia, alta finanza e poteri politici: il "caso Sindona". Sindona era appena un giovanotto negli anni in cui gli americani -con l'aiuto della mafia- sbarcavano in Sicilia. Negli anni in cui nasceva la Repubblica, Sindona lasciava l'isola per raggiungere Milano, con in tasca alcune lettere di presentazione per influenti personaggi dello stato post-fascista. Ambizione, intelligenza ed "amicizie giuste" facevano in pochi anni di Michele Sindona un potentissimo finanziere con le mani in pasta in numerose società finanziarie e banche in Italia e in America. Nel 1973 Sindona organizzava all'Hotel Regis di New York un pranzo in onore di Giulio Andreotti che, proprio in quella occasione, gli attribuì il titolo di "salvatore della lira". Pochi mesi dopo, però, l'impero finanziario del banchiere italo-americano è allo sfascio. Guido Carli, governatore della Banca d'Italia, chiama l'avvocato Giorgio Ambrosoli per rimettere ordine in quell'impero. Beppe Niccolai, nella rubrica "Rosso e Nero" sul "Secolo d'Italia" del 1 giugno 1984, scriveva: «C'è una lettera di Michele Sindona. È del settembre 1976. È indirizzata all'allora Presidente del Consiglio in carica, Giulio Andreotti, capo di un governo retto anche dai voti del PCI. Proviene dall'America. La busta reca il recapito: Hotel Pierre Nuova York. Il bancarottiere, inseguito da un mandato di cattura della magistratura italiana, traccia per il Presidente del Consiglio, un vero e proprio programma di azione. Eccolo: contrastare l'estradizione richiesta dai giudici milanesi; esercitare pressioni sull'apparato giudiziario e amministrativo perché recedano dal comportamenti contrari a lui, Sindona; sistemare gli affari delle banche dichiarate fallite; opporsi alla sentenza di insolvenza [...]». Il 17 dello stesso mese su "OP", l'agenzia di Mino Pecorelli, si poteva leggere per come riportato da Turone: «Siamo entrati in possesso di un documento relativo all'istruttoria Sindona - in particolare della parte che si riferisce al professionista che percepì dal salvatore della lira il miliardo da girare al Presidente dei Consiglio [Giulio Andreotti]. Esistono le prove documentali che il Presidente del Consiglio ha percepito un miliardo da Michele Sindona -che un altro miliardo è stato pagato ad un ex-segretario politico di un partito- che ben quindici miliardi sono stati versati nelle casse di un partito politico (lo stesso del Presidente del Consiglio e dell'ex-segretario politico in questione)». Nella citata rubrica "Rosso e Nero", Niccolai riportava quanto scritto da "il Corriere della Sera": «il 15 e il 25 luglio '78 Rodolfo Guzzi (avvocato di Sindona arrestato per estorsione in questi giorni) viene ricevuto a Palazzo Chigi da Giulio Andreotti, Presidente del Consiglio. Lo mette al corrente del piano di salvataggio delle banche di Sindona. Andreotti spiega all'interlocutore che la persona più adatta per valutarlo è il ministro dei Lavori Pubblici Gaetano Stammati. Il nome di Gaetano Stammati risulterà poi nell'elenco degli iscritti alla P2. È lo stesso on. Andreotti che fissa l'incontro Guzzi e Stammati. Il 20 settembre '78 il ministro dei Lavori Pubblici presenta il progetto di salvataggio a Carlo Ciampi Governatore della Banca d'Italia. È bocciato. Il parere negativo viene riferito tanto all'on. Andreotti che all'avvocato Guzzi». Prosegue Niccolai: «[...] Infatti Andreotti non ce la fa. Nemmeno Enrico Cuccia, Consigliere delegato di Mediobanca, che, minacciato di rapimento dei figli, collabora alla stesura di un piano di salvataggio. A dire "no" ai piani di salvataggio è ancora Giorgio Ambrosoli [...]». Dagli atti del processo per l'assassinio dell'avvocato Ambrosoli risulta che lo stesso avvocato il 9 gennaio '79 ricevette nel suo studio una telefonata in cui l'interlocutore diceva che tutti davano la colpa a lui (Ambrosoli); «sia il Grande Capo sia il Piccolo, il signor Cuccia»; e l'anonimo telefonista spiegava all'allibito avvocato che il Grande Capo altri non era che Andreotti. L'11 luglio, alle ore 23,30, Ambrosoli veniva assassinato appena sceso dalla sua auto. Ai suoi funerali nemmeno una corona dello Stato. Qualche giorno prima aveva confessato ad un amico: «Mi minacciano di morte. Ho sinceramente paura. Ma non posso tirarmi indietro: ne andrebbe della credibilità dello Stato».
Anche lui, come Dalla Chiesa, come Falcone, come Borsellino, credeva in uno Stato che non si identifica con le istituzioni e con gli uomini che le rappresentano! Assassinato finirà anche Mino Pecorelli. Alcuni anni dopo, Michele Sindona -che in precedenza, per sfuggire al processo, aveva inscenato un suo finto rapimento con l'intervento della mafia e della massoneria- verrà estradato in Italia per essere processato. Durante le prime battute dei processo cercherà di mandare segnali rassicuranti per i suoi amici e protettori; cercherà di far capire che non ha intenzione di parlare. Non verrà creduto. Finirà assassinato in carcere con una tazzina di caffè avvelenato. Come Pisciotta. Proprio in quegli anni (gli anni 70) la Sicilia è ancora una volta terra di esperimenti politici: si tesse la tela del «compromesso storico» che porterà poi i comunisti nella maggioranza che sostiene il governo Andreotti ai tempi del «caso Sindona». A guidare il PCI siciliano è Achille Occhetto; e il PCI tesse la sua tela con il partito più imbevuto di mafia. In quegli anni si indaga sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, ma il colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo, impegnato nelle indagini viene assassinato (agosto '77) insieme al suo amico prof. Filippo Costa. Sul settimanale "il Candido" sta scritto: «In quel momento non solo i dirigenti politici romani, ma anche i ras DC-PCI dell'isola (Giovanni Gioia, Salvo Lima, Attilio Ruffini, Nino Gullotti, Achille Occhetto, Pio La Torre) possono finalmente convenire che sull'affare De Mauro-Scaglione è stata posta definitivamente la parola "fine". È vero che restano ancora in vita e in attività di servizio gli antichi dirigenti della squadra omicidi della questura di Palermo, Bruno Contrada e Boris Giuliano, che ai tempi dell'inchiesta sulla sparizione di De Mauro erano stati i più decisi accusatori della banda Verzotto-Guarrasi e, di riflesso, del loro grande protettore Eugenio Cefis [ex-capo partigiano]». Il 30 maggio '78 viene assassinato anche Giuseppe Di Cristina, il pezzo da 90, «uomo di mano del democristiano Graziano Verzotto» il quale è recentemente rientrato in Sicilia dopo un lungo periodo di latitanza, in quanto amnistie varie hanno annullato la condanna a suo carico. Di Giuseppe Di Cristina -quello delle consegne in piazza durante la processione- parlava anche Giovanni Falcone, ricordando quanto gli aveva detto il pentito Antonio Calderone: «Per esempio, il boss di Riesi Giuseppe Di Cristina, deluso dalla mancanza di aiuto concreto da parte della Democrazia Cristiana per alleggerire le misure di sorveglianza di pubblica sicurezza, si è rivolto al repubblicano Aristide Gunnella. Di Cristina è stato poi anche assunto in un Istituto regionale su proposta dello stesso Gunnella». «C'è da meravigliarsi se il Partito Repubblicano ha raccolto "una valanga di voti" alle elezioni di Riesi, per dirla con Calderone?»

Ma torniamo agli esperimenti politici
Ha scritto Nando Dalla Chiesa, uomo di sinistra: «La mafia, è bene ricordarlo, diventa più potente proprio nel decennio in cui cresce -e non di poco- la forza della Sinistra. Spiegazioni a iosa, d'accordo. Ma c'è un interrogativo inquietante. Quali sono i princìpi che regolano tattiche, strategie, formule e soprattutto alleanze della sinistra in quel periodo? Forse le leggi della politica che essa pratica sono le stesse in cui può navigare il potere mafioso? [...] c'è a sinistra un approccio al potere che va criticato impietosamente. Senza di che la denuncia delle responsabilità democristiane resterà sacrosanta quanto inefficace».

Questo approccio non riguarda solo la Sicilia
Franco Martelli, in "La guerra mafiosa", scrive: «C'era comunque, e soprattutto nelle forze di sinistra, un difetto di origine: le organizzazioni mafiose, laddove esistevano, non essendosi ovunque caratterizzate come sostegno agii agrari (ciò era avvenuto più nella zona di Gioia Tauro, di meno nella lonica e sull'Aspromonte) venivano viste pur sempre come forma di ribellione e di reazione, quasi che il riscatto potesse passare anche, dopo tutto, attraverso questa prima fase per così dire grezza della rivolta. La cosiddetta "repubblica" di Caulonia del marzo '45 ne era stata illuminante testimonianza». E a questo punto Martelli riporta quanto sostenuto da Sharo Gambino nel suo libro "Mafia. La lunga notte della Calabria", proprio a proposito della "Repubblica rossa" di Caulonia: «È certo comunque che presero parte alla rivolta anche i mafiosi, ovvero i braccianti aderenti alle "ndrine" locali. È altrettanto certo che la rivolta si nutrì di comportamenti e persino di rituali mafiosi». E che la sinistra -e i comunisti in prima fila- avessero attenzioni a dir poco benevole nei confronti della mafia lo dimostra quanto scritto il 26 aprile '44, sul settimanale della Federazione Provinciale di Palermo del PCI, in un articolo intitolato "La mafia".

Ecco una significativa parte:
«I componenti della vecchia mafia nelle lotte per la conquista delle terre non avranno più bisogno di mettersi fuorilegge: solo adattandosi ai nuovi tempi e al nuovi bisogni di unione con tutti i lavoratori essi potranno realizzare le loro aspirazioni ed emanciparsi economicamente come tutti i contadini. Il separatismo e la mafia hanno interessi diametralmente opposti: se questa oggi è allettata dai latifondisti con lauti stipendi e larghi utili per il concorso al contrabbando, è perché essa è utile; ma se per caso domani i latifondisti si dovessero di nuovo consolidare, troverebbero un altro Mori per reprimere nuovamente i loro alleati». Quale sia stato poi l'approccio dei comunisti alla politica e soprattutto al potere è dimostrato dal fatto che perfino Pio La Torre nel dicembre dei '74, in tempo di compromesso storico e di crescita mafiosa, dichiarava: «Do atto che in questi ultimi tempi nella DC siciliana c'è stato un processo critico, autocritico, di ripensamento e quindi c'è uno sforzo di rinnovamento che si tenta (in mezzo a mille difficoltà di portare avanti [...] Non vi è dubbio che la presa della mafia e il suo potere sull'elettorato in Sicilia si siano ridotti e si sono ridotti per tutto quello di progresso e di sviluppo che in Sicilia c'è stato». Mentre la mafia cresceva ed aumentava il suo potere, Pio La Torre diceva, al contrario, che la sua forza e il suo potere si riducevano.

Tutto ciò perché Il PCI e la DC si erano messi d'accordo
Lo stesso Pio La Torre nella relazione dei PCI nella Commissione antimafia -che è una relazione di compromesso- difendeva Vito Guarrasi, il cui nome compariva più volte negli atti della Commissione stessa. Per difenderlo -diceva- «dagli attacchi della destra fascista». Chi sia Vito Guarrasi lo dice -oltre alle numerose citazioni negli atti dell'Antimafia- anche una pagina dei memoriale di Giuseppe Insalaco, il sindaco di Palermo assassinato dalla mafia. Insalaco scriveva che Guarrasi, quale inviato dal conte Cassina, lo voleva convincere a scegliere la trattativa privata per «quell'appalto»; in questo modo avrebbe evitato di essere travolto da una vicenda giudiziaria che stava maturando al Palazzo di Giustizia contro di lui, e di cui Guarrasi era misteriosamente a conoscenza. Nel diario di Rocco Chinnici -il magistrato assassinato dalla mafia- c'è un appunto in data 17 aprile '81. Eccolo:
«Ore 18, viene a trovarmi il marchese De Seta; dopo avermi raccontato delle sue vicende con l'avvocato Guarrasi, mi fa presente che costui è intimo amico dei senatore Emanuele Macaluso. Mi riferisce che alla galleria d'arte "La Tavolozza" (il cui proprietario effettivo è Renato Guttuso) si recava spesso il dott. Boris Giuliano, il quale in quella sede, parlando con Leonardo Sciascia e qualche altro, si riteneva certo che responsabile del sequestro Di Mauro era proprio il Guarrasi [Boris Giuliano era il vice-questore di Palermo poi assassinato dalla mafia]». Scriveva Niccolai: «Importante Vito Guarrasi per il PCI. Al punto che il 30 maggio '74 [...] Emanuele Macaluso, direttore de "l'Unità" inviò al ministro dell'interno un'interrogazione, chiedendo, in modo perentorio, l'allontanamento dal servizio dei questore Angelo Mangano perché costui, in dichiarazioni rese davanti alla Corte di Assise di Palermo, aveva osato dire, sul conto di Guarrasi, quello che oggi si trova scritto sui diari di Rocco Chinnici: Vito Guarrasi, la testa pensante della mafia in Sicilia». Macaluso, chiamato in causa dalla pubblicazione dei diari di Chinnici, fece emanare una precisazione in cui affermava che la sua amicizia con Guarrasi era conseguenza dei rapporti che lo stesso Guarrasi intratteneva con tutto il gruppo dirigente comunista siciliano, e ricordava che Guarrasi era stato candidato nel '48 nelle liste del Fronte Popolare, era stato poi amministratore del «giornale democratico di Palermo "l'Ora" e consigliere giuridico di Enrico Mattei e dell'ENI». I rapporti di Guarrasi con il PCI -secondo Macaluso- si sarebbero poi interrotti dopo l'esperienza del governo di Milazzo. Peccato che l'interrogazione dello stesso Macaluso, prima riportata, sia successiva di quasi quindici anni a quel governo siciliano. Pio La Torre finirà poi massacrato dalla mafia e Niccolai invitava ad andare a guardare all'appalto del Palazzo dei Congressi di Palermo, («un appalto di diversi miliardi. Una ditta cara a sinistra, data per vincente, e che poi non ce la fa») e al racconto che si fa nella relazione di minoranza dei MSI -redatta dallo stesso Niccolai e definita «una cosa seria» da Leonardo Sciascia- «della convenzione che il Comune di Palermo stipula con la ditta Vaselli negli anni '60, per il rinnovo dell'appalto della nettezza urbana. E si troverà che anche Pio La Torre si portava dietro i suoi peccatucci, tipici di una situazione, quella siciliana, dove il PCI è stato sempre non forza di opposizione, ma di potere, niente altro che forza di potere».
Altri fatti ancora mostrano quale sia stato -e quale sia ancora- l'approccio dei PCI (e della sinistra in generale) al potere e alla politica. Fatti che fanno capire e che fanno apparire «naturale» quello che è successo in questi anni in Sicilia, a Milano (tangentopoli) e in ogni angolo d'Italia. Anni fa Niccolai scriveva -tramite il "Giornale di Sicilia" e "l'Unità"- una lettera (mai pubblicata perché il destinatario non ne volle sapere di rispondere) indirizzata ad Emanuele Macaluso, «per sapere se il PCI non partecipasse almeno in Sicilia al sistema di potere DC», e chiedeva: «che cosa ci faceva, nel febbraio del '72, nel Consiglio di Amministrazione della finanziaria GEFI, proprietaria del pacchetto di maggioranza dell'ex-Banca Loria, poi Banco di Milano di Michele Sindona, l'avvocato Calogero Cipolla, all'epoca presidente del giornale (comunista) "l'Ora" di Palermo, consigliere di amministrazione del quotidiano (comunista) "Paese Sera", fratello del senatore (comunista) Nicolò Cipolla, già membro della Commissione Antimafia [...]». Quello di non rispondere quando è in difficoltà è per Macaluso un vizio. Infatti non ha mai voluto rispondere nemmeno alle richieste di spiegazioni sul passaggio delle vecchie miniere baronali dalla mano privata a quella pubblica. Un «affare» a proposito del quale Leonardo Sciascia ha scritto che «nulla capiremo della mafia finché non metteremo in luce gli aspetti di questa vicenda». C'è poi una dichiarazione di Maria Fais, amica della famiglia La Torre, rilasciata dopo l'assassinio del parlamentare comunista, che si salda perfettamente con quanto detto: «Pio sospettava che "l'Ora" e "Tele l'Ora", testate del PCI fossero finanziate da imprenditori siciliani vicini alla mafia». Che l'approccio alla politica dei PCI fosse uguale a quello della DC anche fuori dalla Sicilia lo dice poi il democristiano Cirino Pomicino in una dichiarazione del 1982. Eccola: «Gli sviluppi dell'ultimo periodo a Napoli presentano un dato di continuità: quello dei rapporto tra gruppo doroteo della DC ed amministratori comunali del PCI. Per essere più precisi, tra Andrea Geremicca deputato ed assessore di punta comunista e Raffaele Russo, gaviano. La gestione di ventimila alloggi da costruire e distribuire in base alla legge Andreatta è stata manipolata da un cosiddetto comitato politico che è la sede della spartizione fra PCI e dorotei». La fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta sono caratterizzati da una lunga serie di delitti «eccellenti». Cadono, tra gli altri, il già citato Boris Giuliano, Cesare Terranova, Michele Rejna, Emanuele Basile, Gaetano Costa, Piersanti Mattarella. Nell'aprile del 1982 muore anche -come già detto- Pio La Torre, segretario regionale del partito Comunista. Questo delitto precede di soli quattro mesi un altro delitto «eccellente», che è anche un delitto annunciato: quello di Carlo Alberto Dalla Chiesa
 
3ª parte
Dalla Chiesa, reduce dal successo contro il terrorismo, viene nominato Prefetto di Palermo. Sembra un segnale importante. Si crede che il governo voglia combattere davvero la mafia.  Ma è solo apparenza. Il figlio del generale, Nando, racconta nel suo libro "Delitto imperfetto" che, prima di partire per la Sicilia, il padre ebbe un incontro che sarebbe stato «(...) per il suo destino un incontro cruciale: quello con Giulio Andreotti». Dopo questo incontro il Generale avrebbe detto: «Sono andato da Andreotti e quando gli ho detto tutto quello che so dei suoi in Sicilia è sbiancato in faccia». Andreotti, dal canto suo, ha smentito che in quell’incontro si sia parlato dei rapporti mafia-politica. Però, nel suo diario, nella pagina del 6 aprile 1982, il Generale ha lasciato scritto: «Poi ieri anche l’on. Andreotti mi ha chiesto di andare e naturalmente, date le sue presenze elettorali in Sicilia, si è manifestato, per via indiretta, interessato al problema. Sono stato molto chiaro e gli ho dato però la certezza che non avrò riguardo per quella parte di elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori». Chi ha mentito?  Comunque, appena Dalla Chiesa arriva in Sicilia incominciano le polemiche sui poteri da conferirgli. E a schierarsi contro di Lui sono proprio gli uomini e i partiti di governo che li avevano promessi e che, secondo Nando Dalla Chiesa, erano stati posti dal padre come condizione per l’accettazione della nomina. Comincia il socialdemocratico Carlo Vizzini ricordando che il compito affidato al neo-prefetto era quello di «Spezzare le pericolose collusioni tra la delinquenza organizzata e l’eversione». (Quindi non i legami tra mafia e politica). I giornali del 13 agosto riportano la notizia che il Ministro degli Interni Rognoni e il Presidente del Senato, Fanfani, sono contrari all’idea di un Dalla Chiesa nazionale. Scrive il giudice Minna: «Qualcuno del governo non vuole che Dalla Chiesa faccia il suo dovere ...». Sul "Giornale di Sicilia" del 18 agosto il vicario episcopale Padre Francesco Michele Stabile dichiara: «La gente comincia a pensare che i gruppi di potere una direzione operativa a Dalla Chiesa non vogliono dargliela perché il Prefetto potrebbe davvero sconfiggere la mafia (...). Troppe complicità fra i pubblici amministratori. Troppe collusioni ed anche troppe omissioni ...». E quali fossero le collusioni lo diceva lo stesso Generale il quale, secondo il figlio, dichiarava: «Ora sono stato mandato in Sicilia. Non ci posso far niente se lì i più legati alla mafia sono democristiani». Ma i problemi per lui sarebbero stati non solo con la DC, ma anche con i partiti laici. In un’intervista a "Il Mondo", Angelo Sanza, uomo di governo democristiano, legato a De Mita, delegato ai problemi della polizia, affermava che Dalla Chiesa non poteva avere a Palermo compiti che sono propri di organizzazioni centrali.  Secondo Nando Dalla Chiesa il messaggio lanciato da Sanza sarebbe stato questo: «Dalla Chiesa è un prefetto come gli altri, non ha e non avrà nessun potere in più ...» e «Di fatto significa, ancora, che lo Stato, se sarà toccato Dalla Chiesa, non riterrà di essere stato colpito al cuore, di doversi mettere in guerra con la mafia». Lo stesso Nando così commenta: «Se non sbaglio, quel messaggio ha trovato orecchie attente». In questo clima, mentre la mafia continua ad uccidere e a far sapere che è cominciata "l’operazione Carlo Alberto", si arriva quasi a negare l’esistenza stessa della mafia, o almeno la collusione con i politici: il sindaco di Palermo, Martellucci, dichiara: «Io non conosco collusioni mafiose al Comune di Palermo», e il prefetto di Catania, Abatelli, afferma: «Qui la mafia non esiste». Dalla Chiesa cerca allora di utilizzare la stampa per costringere il governo ad uscire allo scoperto e a muoversi. Concede a Giorgio Bocca la famosa intervista in cui dichiara di essere stato lasciato solo e di essere, per questo, un facile bersaglio per la mafia. Ma il Presidente del Consiglio, il Ministro degli Interni e tutto il governo non si muovono.  Il 2 settembre, il Generale viene assassinato insieme alla giovane moglie Emanuela Setti Carraro. Si pensa ad una talpa che avrebbe informato il commando mafioso dell’uscita del Generale dalla Prefettura e dell’itinerario seguito. Nando Dalla Chiesa afferma che in Prefettura lavoravano -tra gli altri- Antonio Miceli, fratello del famigerato Joseph Miceli Crimi, il medico che aveva ospitato Sindona all’epoca del suo falso rapimento e Ciro Lo Prato, segretario comunale di Mariano, democristiano, nipote del boss mafioso Vincenzo Catanzaro coinvolto nell’indagine sull’assassinio del colonnello Russo. Ma il successore di Dalla Chiesa smentisce la possibilità di infiltrazioni. Subito dopo il delitto, su "Il Giornale", Indro Montanelli scrive: «Chi siano i capi mafiosi e da chi siano protetti, a Palermo lo sanno anche le pietre. È ora che vengano stanati a qualunque prezzo e con qualunque mezzo. Chi cercherà di opporvisi non potrà che essere considerato un (...) favoreggiatore». E ancora: «Inchiesti il Parlamento, se vuole, ma su sé stesso» e, riferendosi alla Regione Sicilia: «Sappiamo benissimo quanto di mafia è permeata e succube». Ai funerali i figli di Dalla Chiesa notano la presenza, davanti alla bara, della corona inviata dalla Presidenza della Regione Sicilia. Quella presenza -scrive Nando- fa tornare loro in mente la frase detta dal padre: «Nei delitti di mafia la prima corona ad arrivare è quella del mandante». La morte del Generale è un colpo per tutta l’Italia. É chiaro a tutti che le istituzioni -governo in prima fila- non hanno fatto nulla per permettergli di combattere sul serio la mafia. Accanto alla ribellione nasce allora la sfiducia. La convinzione che la mafia non può essere vinta perché la classe politica è troppo legata ad essa. Dal canto suo il Governo cerca di inventare qualcosa di nuovo; e mentre tutti coloro che avevano osteggiato Dalla Chiesa da vivo ne tessono le lodi da morto e negano qualsiasi disaccordo con esso, quei poteri che Lui aveva continuamente richiesti, che gli erano stati promessi prima e negati poi, vengono concessi -forse ancora più ampi- al suo successore. E dal cilindro dei politicanti nasce una nuova figura, quella dell’Alto Commissario per la lotta alla mafia. La mafia continua, però, ad operare senza grossi problemi. Ad operare e ad uccidere. Cadono: il procuratore della Repubblica di Trapani, Giacomo Ciaccio Montalto; il capitano dei carabinieri, Mario D’Aleo; il giudice Rocco Chinnici; il giornalista Giuseppe Fava; il commissario di polizia Giuseppe Montana; il vicedirigente della squadra mobile, Antonio Cassarà; il magistrato Giuseppe Giacomelli; il presidente della Corte d’Appello di Palermo, Antonio Saetta; il giudice Livatino. Cadono anche politici ed imprenditori, e non solo in Sicilia. In Calabria viene assassinato un politico eccellente: l’ex-onorevole democristiano Lodovico Ligato. Sempre in Calabria, dove anni prima era stato assassinato un alto magistrato, Francesco Ferlaino, viene assassinato, nell’agosto del '91, Antonio Scopelliti, sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione. Unico fatto di grande importanza nella lotta alla mafia, negli anni ottanta, il processo che un gruppo di magistrati riesce a mettere in piedi in Sicilia, contro pesci piccoli e grossi della mafia, e che resiste fino alla Cassazione. Di questo gruppo di magistrati fanno parte Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Giovanni Falcone raccontava che il pentito Tommaso Buscetta gli aveva detto che Cosa Nostra, prima di arrivare all’eliminazione fisica di un nemico esterno (come può essere un magistrato), cerca di screditarlo. Questa tecnica viene puntualmente attuata contro di Lui: prima i veleni del palazzo di Giustizia di Palermo, con le lettere del corvo, poi il fallito attentato del giugno del 1989 che viene usato per screditare il magistrato. Si arriva infatti a sostenere che esso non era opera della mafia e che serviva come mezzo pubblicitario. Intanto, il gruppo di magistrati che ha portato a termine gli importanti processi di mafia -per uno di quei tanti misteri italici- è stato sciolto. Il 13 marzo '91, Falcone viene nominato Direttore degli Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia e trasferito a Roma. L’allontanamento da Palermo non pone però il giudice al riparo da Cosa Nostra. Il 23 maggio '92, mentre in Parlamento si susseguono le inutili votazioni per l’elezione del Presidente della Repubblica, Giovanni Falcone viene fatto saltare in aria insieme alla moglie Francesca Morbillo e a tre uomini di scorta sull’autostrada che porta dall’aeroporto di Punta Raisi a Palermo. Poco tempo prima, sempre a Palermo, era stato assassinato Salvo Lima, europarlamentare della Democrazia Cristiana, ritenuto uno degli uomini più potenti della Sicilia e personaggio di spicco degli atti della Commissione Antimafia. Le indagini dei magistrati palermitani sull’uccisione dell’europarlamentare e le confessioni di alcuni mafiosi pentiti sembrano oggi avere confermato quello che tutti sapevano: Salvo Lima era il difensore politico della mafia ed esercitava il suo compito appoggiandosi a Giulio Andreotti. Il giudice Giuseppe Ayala ha detto che Cosa Nostra non lascia niente al caso. La morte di Lima avrebbe quindi dovuto far capire che all’interno dell’organizzazione si stava giocando (e ancora si sta giocando) una partita importante, ma avrebbe -ancor di più- dovuto fare riflettere su un dato importantissimo: se Lima è stato eliminato vuol dire che ci sono già altri politici di non minore importanza e potere pronti a sostituirlo nelle sue funzioni. Lo Stato non è però riuscito a salvare Falcone. Morto Falcone, chiunque avrebbe dovuto capire che il bersaglio immediatamente successivo sarebbe stato Paolo Borsellino.  Puntualmente, due mesi dopo la strage di Capaci, anche Borsellino salta in aria insieme agli uomini della sua scorta. Se l’attentato a Falcone era difficile da prevenire -nelle condizioni attuali-, quello contro Borsellino era talmente ovvio e prevedibile, da manuale, che lascia increduli per come si è potuto attuare. Scontato l’obiettivo: il Magistrato; possibilissimo come obiettivo -anche a prescindere dalla presenza dello stesso- il luogo dell’attentato: il palazzo in cui abita la madre del giudice, lasciato senza alcuna protezione; da manuale la tecnica usata: un auto-bomba; tecnica già usata per assassinare il giudice Chinnici.  Perché, allora, chi doveva non ha preso le necessarie precauzioni? Aveva detto Falcone: «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno». Anche Falcone e Borsellino erano dunque stati lasciati soli. Come Dalla Chiesa. Ma anche Falcone e Borsellino erano diventati troppo potenti. Ed infatti uno dei magistrati che con Falcone e Borsellino aveva lavorato a lungo -Giuseppe Ayala-, subito dopo la strage, ha detto: «Dire mafia è troppo poco per spiegare questa strage». La morte di Falcone, e poi quella di Borsellino, assumono un significato politico. Perché, per esempio, per trasferire i mafiosi dall’Ucciardone (il carcere di Palermo) si è aspettato che fossero assassinati i due magistrati più impegnati nella lotta a Cosa Nostra; i due magistrati che più di ogni altro avevano capito la mafia. E se, ufficialmente, Buscetta aveva detto a Falcone che non avrebbe parlato dei rapporti tra mafia e politici, perché le cose che avrebbe potuto dire erano tali che avrebbero reso incredibili tutte le altre accuse, è possibile che lo stesso non avesse lanciato ai giudici di cui si fidava almeno un segnale su quali erano i politici da cui avrebbero dovuto guardarsi maggiormente? Il giudice Caponetto ha confermato, in un intervista televisiva, che Buscetta, fuori verbale, aveva fatto il nome di Salvo Lima. Adesso, secondo un settimanale, viene fuori che lo stesso Buscetta avrebbe fatto a Falcone i nomi dei politici che ordinavano di uccidere, proprio pochi giorni prima della morte del magistrato. La morte di Falcone e Borsellino suscita nuove ondate di emozione e di rabbia in tutta Italia e, come al solito, il Governo cerca di varare misure che plachino l’opinione pubblica: i mafiosi dell’Ucciardone vengono trasferiti e in Sicilia arriva l’esercito. Ma la mafia non è un problema di ordine pubblico. Il giudice Ayala, in una trasmissione televisiva, ha detto che la mafia non si combatte mandando per le strade di Palermo ragazzi di vent’anni con il fucile in mano e che i provvedimenti del governo sono solo di facciata e non serviranno a combattere quella mafia che è cresciuta grazie ai governi che si sono succeduti e di cui quello attuale prosegue la politica. Certo la presenza di militari fa diminuire scippi, furti e rapine; ma non si sconfigge la mafia se non c’è una volontà politica per farlo. Diceva Giovanni Falcone: «Diversi anni fa, a Palermo fu consumato uno degli ormai tanti omicidi eccellenti. Mentre ero immerso in amare riflessioni squillò il telefono. Era l’Alto commissario per la lotta alla mafia del tempo: "E ora cosa possiamo inventare per placare l’allarme del Paese?" mi chiese». L’Alto commissario non si preoccupava tanto di combattere la mafia, ma di cosa inventare per placare l’opinione pubblica.  Questo ed altri episodi danno, secondo Falcone, il quadro realistico dell’impegno dello Stato nella lotta alla criminalità organizzata. Emotivo, episodico, fluttuante. Motivato solo dalla impressione suscitata da un crimine o dall’effetto che una particolare iniziativa governativa può esercitare sull’opinione pubblica. É quello che sta scritto anche in un messaggio fatto pervenire al giudice Caponetto -padre del pool antimafia di cui avevano fatto parte Falcone e Borsellino- da un vecchio compagno di scuola: «... I vari Martelli non mirano a bonificare né a migliorare, pensano solo al proprio interesse, gli basta una mossa indovinata per l’opinione pubblica. Anche perché non è gente cui preme che la verità venga tutta a galla o sia perseguita". Ed infatti Cosa Nostra ha continuato a colpire. Si è salvato per miracolo un collaboratore di Borsellino e, proprio a Palermo, è stato tranquillamente assassinato uno dei potentissimi in odore di mafia: Ignazio Salvo. Ma questo Stato può combattere davvero e fino in fondo la mafia?
Secondo me, no! Non può combatterla perché esso nasce non dalla resistenza -come si dice comunemente-; nasce nel 1943 dagli accordi degli americani con i mafiosi. Quel Vito Guarrasi di cui ho parlato era, nel 1943, ad Algeri, insieme al generale Castellano, a trattare la resa dell’Italia. Ma Vito Guarrasi era soltanto un sottotenente. Chi rappresentava? E poi c’è quell’articolo 16 del Trattato di pace. Non può combattere la mafia perché i mafiosi albergano all’interno delle istituzioni e degli onnipotenti partiti che le occupano, e perché essa ha un potere economico enorme. Diceva Falcone: «Cosa Nostra non è un anti-Stato, ma piuttosto un organizzazione parallela ...». Dopo la morte di Dalla Chiesa, Alberto Cavallari, su "Il Corriere della sera" aveva scritto: «Dalla Chiesa muore perché spedito al fronte senza tenere conto che dietro le sue spalle la mafia ha invaso le retrovie, gli stati maggiori, l’intendenza, il territorio nazionale. Che può fare Dalla Chiesa se Milano è mafiosa come Palermo, se Torino ha più cosche di Agrigento, se Roma è una grande Bagheria?». Dopo l’assassinio di Falcone, Claudio Magris, sullo stesso quotidiano: «(...) la mafia è diventata parte del corpo che dovrebbe combatterla, si è intrecciata con gli organi dello Stato e del mondo politico fino a rendersi indistinguibile da esso». Giuseppe Fava, il giornalista assassinato dalla mafia, aveva scritto: «I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono Ministri, i mafiosi banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione». Su "l'Espresso" del 5 aprile, Giorgio Bocca ha scritto che quasi la metà dei giudici riuniti in assemblea dopo l’assassinio del giudice Livatino «(...) hanno firmato un documento in cui si dice che la mafia vince non solo per l’insufficienza dello Stato, ma per un preciso disegno volto a disarticolare ogni tipo di controllo istituzionale e a mantenere gli attuali equilibri economici basati su un intreccio sempre più potente tra attività legali e illegali su cui si fonda il consenso al potere politico attuale». Falcone raccontava che Buscetta gli aveva detto: «Ho fiducia in lei, giudice Falcone, come ho fiducia nel vicequestore Gianni Di Gennaro  Ma non mi fido di nessun altro. Non credo che lo Stato italiano abbia veramente intenzione di combattere la mafia». Nel dicembre del 1983, in un convegno tenuto a Reggio Calabria sul tema "Mafia-Stato-Società", Raffaele Bertone, allora presidente della sezione antimafia del Consiglio Superiore della Magistratura, aveva detto: «(...) mentre l’attacco del terrorismo alle istituzioni aveva radici ed origini esterne ad esse, quello mafioso trova sostegno oggettivo all’interno delle istituzioni, tra coloro che in misura più o meno significativa le rappresentano e le esprimono».
Beppe Niccolai, nelle conclusioni della sua relazione quale componente della Commissione Antimafia, così scriveva: «La battaglia contro la mafia si combatte sul fronte dei partiti, debellando prima l’omertà, o meglio l’equilibrio dei ricatti che si è stabilito fra i partiti per poi passare, con mezzi rigorosi e alla piena luce del sole, alla pulizia interna, senza la quale, per dirla con Leonardo Sciascia, grazie al canale putrescente delle correnti partitocratiche, si darà sempre il caso che l’uomo politico di statura europea, moderno, di idee avanzate, ritenuto, in Italia e fuori, capace di guidare le sorti del governo e dello Stato, in Sicilia risulti di fatto il più efficiente protettore degli uomini politici indiziati di mafia, o addirittura, della mafia». Ma i partiti si sono guardati bene dal fare pulizia, dal recidere i rapporti con la criminalità, organizzata o meno. Diceva Giovanni Falcone: «La mafia, è un fatto notorio, controlla gran parte dei voti in Sicilia. Il pentito Francesco Marino Mannoia ha parlato di decine di migliaia di voti sotto influenza nella sola Palermo. E le elezioni politiche del 1987 hanno peraltro messo in luce massicci spostamenti di voti nei seggi elettorali più significativi». Questo spostamento di voti «è stato provocato da Cosa Nostra per lanciare un avvertimento alla Democrazia Cristiana, responsabile di non avere saputo bloccare l’inchiesta antimafia dei magistrati di Palermo».
I voti sottratti alla DC -secondo Falcone- «sono confluiti verso quei partiti che avevano assunto una posizione fortemente critica nei confronti della magistratura: il Partito Socialista e il Partito Radicale». Sempre secondo Falcone, alla mafia i problemi politici «non interessano più di tanto fino a che non si sente minacciata nel suo potere o nelle sue fonti di guadagno. Le basta fare eleggere amministratori e politici amici e a volte addirittura membri dell’organizzazione. E ciò sia per orientare il flusso della spesa pubblica, sia perché vengano votate delle leggi idonee a favorire le sue opportunità di guadagno e ne vengano invece bocciate altre che potrebbero esercitare ripercussioni nefaste sul suo giro d’affari». E che i mafiosi sappiano bene quali uomini e quali partiti far votare lo dimostra questo quadro della collusione e dei rapporti politica-criminalità, riferito alla Calabria, tratto dal libro di Franco Martelli: «Scrivevano di don Mommo Piromalli i carabinieri di Gioia Tauro, in un rapporto del 1970: "Gode delle amicizie in seno al personale di governo, con i quali si mantiene in buoni rapporti e dei quali gode anche protezione (...)". Tre anni dopo, nel corso di una perquisizione nella villa Piromalli, venivano trovati i biglietti da visita di alcuni deputati calabresi della Democrazia Cristiana e del Partito Socialista». I De Stefano, in varie occasioni hanno fatto campagna elettorale per il PSDI; i boss mafiosi del reggino hanno fatto il giro della Calabria per un parlamentare democristiano; decine di mafiosi sono stati graziati al tempo in cui era sottosegretario alla giustizia un parlamentare repubblicano.  Nel giugno 1980 «La DC al comune di Reggio ha presentato un cugino dei De Stefano (...) risultato al secondo posto fra gli eletti. Nel periodo elettorale, Paolo De Stefano, rimasto a capo della famiglia dopo l’uccisione dei due fratelli, aveva ottenuto la sospensione del soggiorno obbligato dovendo essere sottoposto ad un processo a Reggio. (...) Nella stessa occasione, di uguale trattamento ha goduto il boss di Rosarno Giuseppe Pesco, in permesso nel suo comune dove era attivamente impegnato nella campagna elettorale per il PSI. (...) Casi altrettanto clamorosi si sono registrati nel PRI che ha eletto alla Regione Pietro Araniti, cugino del boss Santo Araniti. (...) Sempre i repubblicani hanno fatto eleggere alla provincia di Reggio il genero di don Antonio Macrì, Pietro Ligato. (...) Il PSI, da parte sua, aveva candidato al comune di Montebello Ionico il latitante Paolo Fati, risultato poi primo degli eletti. L’infiltrazione non ha risparmiato in questi anni neanche il PSI».

Francesco Mastroianni